La cultura architettonica greca e spagnola in Sicilia
La Sicilia, grazie alla sua posizione geografica, sempre al centro di interessi militari e commerciali, è stata nell’arco dei secoli, campo di sperimentazione artistica di popoli di cultura diversa, e quindi importante veicolo culturale internazionale. La cultura greca e quella spagnola sono quelle che hanno influito per più secoli in maniera diretta sull’architettura isolana.
Dal VI al XIII sec., dopo la lunga pausa romana, in Sicilia si torna a “parlare greco”. Nel 535, infatti, durante la guerra gotica, l’isola viene occupata da Belisario ed annessa all’Impero bizantino. Agli anacoreti già presenti sull’isola, si aggiungeranno quindi altri religiosi grechi che edificheranno templi adatti al proprio rito.
Sotto il successivo dominio arabo, ai basiliani, monaci per lo più di rito greco, sarà concesso di rifugiarsi sulle alture. A seguire, i re normanni decideranno, invece, di finanziare i monaci devoti a S. Basilio, per far controllare loro il territorio, imponendo tutt’al più modifiche “basilicali” alle piante delle chiese.
Certamente greca, infatti, è la pianta centrale, più adatta al rito ortodosso: circolare, quadrata, ottagonale o a croce con bracci uguali. Molto utilizzata è la cupola emisferica, che esternamente appare ribassata grazie all’innalzamento dei muri del tamburo su cui poggia. Spesso è presente l’oculo centrale, come nell’architettura romana da cui deriva (Pantheon).
Ma è greca anche la monoaula absidata, che simboleggia la nave come mezzo di salvezza (arca di Noè).
Di tutti questi generi fanno parte probabilmente: la non più esistente chiesa di S. Maria di Portella a Castanea (Messina), la chiesa vecchia di Acqualadroni (Messina), la chiesetta sul monte Paleo Kastron a Rometta, la chiesa della Madonna del Loreto a Pezzolo (Messina), San Pietro di Deca a Torrenova, la “Rosata” di Rodì Milici, Santa Maria del Bosco ad Alì, la chiesa di S. Biagio a Castelmola, la chiesa di S. Marco a S. Pier Niceto, la chiesa della Badia a Piraino, la Madonna del Tonnaro e la chiesa di S. Rosalia a Castanea (Messina), S. Placido in Silvis a Giampilieri (Messina), l’Annunziata a Castelmola, S. Michele Arcangelo a Forza D’Agrò e ad Allume (Roccalumera), la chiesa di S. Nicola a Mili S. Pietro (Messina).
Al gruppo della cosiddetta architettura arabo-normanna, di cui fanno parte le più conosciute chiese palermitane e le “tre gemelle” della Val Demone, S. Pietro e Paolo a Itala e Casalvecchio e S. Maria a Mili S. Pietro (Messina), si potrebbe aggiungere anche la chiesa di S. Francesco a Taormina, per un periodo cattedrale della città. Gli elementi di questa architettura sono, molto sinteticamente, l’aspetto turrito, il campanile e l’arco pacatamente ogivale normanno, gli archi intrecciati, le colonne tortili e la cupola rialzata araba e, per l’area della Val Demone, l’effetto pittorico esterno dettato da materiali semplici come la lava, la pietra calcarea e i mattoni. Ma notevole è l’apporto greco, non solo nell’utilizzo dei mosaici interni nelle chiese palermitane, ma soprattutto nell’orientamento ad est e nell’aspetto centrico di alcune piante.
Dopo la pausa gotico sveva, dove notevole è la produzione militare e palaziale, piuttosto che ecclesiastica, nel 300, famiglie baronali locali, come i Chiaramonte, si oppongono militarmente e stilisticamente agli aragonesi/catalani. E’ per questo che solo dal 400 in poi saranno, prima i catalani, poi gli spagnoli, a dettare i connotati dell’architettura siciliana; fino agli inizi del ‘700 allo stile rinascimentale e barocco italiano, si continuerà a preferire spesso il gusto spagnolo.
Usato già in epoca medievale (sala del camino nel castello di Milazzo), l’arco a diaframma (di rinforzo trasversale all’asse principale dell’edificio) è molto usato nell’architettura civile e militare trecentesca. Esempi significativi li ritroviamo nel castello di Mussomeli e nell’arco “riposizionato” di Castroreale. Ma gli elementi dell’architettura trecentesca “chiaramontana” sono soprattutto quelli considerati ormai indigeni, come gli archi pacatamente acuti normanni, le decorazioni a zig zag arabe su portali e balaustre, nonché le bifore e trifore di impronta sveva.
In questo periodo di guerre intestine, si costruiscono essenzialmente castelli e palazzi fortificati. Per questi ultimi l’aspetto è turrito, con piccole porte al piano terra, una cornice marcapiano e grandi finestre su di essa direttamente poggianti (Palazzo Mergulese a Siracusa, Palazzo Steri a Palermo, Palazzo dei Duchi di S. Stefano a Taormina).
Nel ‘400 Siracusa, che era fra i più grandi porti siciliani, vedeva fiorire e intensificare la propria vita commerciale. La popolazione cresceva e la città non era pronta, col suo vecchio impianto urbanistico medievale, ad accogliere tutti. Fu così che, per incentivare e controllare le nuove costruzioni, la città ottenne l’approvazione dalla regina Maria d’Aragona per un progetto di legge che concedeva il diritto di esproprio per costruire un palazzo, o semplicemente per “extendere, ampliare et pulchrifacere” uno già costruito.
I governatori aragonesi e i ricchi banchieri e mercanti catalani, avevano piacere di rivivere nelle proprie case siciliane l’ambiente familiare. Grazie a questa nuova legge le nobiltà del levante spagnolo, ma anche la popolazione indigena, poteva acquistare e restaurare più lotti in maniera tale da formare patii, spesso irregolari, e poterli dotare di scale scoperte come era in uso a quel tempo in Catalogna, Valencia e Baleari. E’ per questo che in città come Siracusa, Taormina, Messina, Palermo, Enna, Trapani, è oggi possibile trovare case con patio e scala scoperta, costituite da elementi provenienti dal gotico civile catalano; più orizzontale che verticale, con le sue finestre architravate o ad arco ribassato, con portali ad ampia raggiera di conci, bifore e trifore con esile colonnina e abaco espanso, parapetti con cornici a zigzag, trafori fiammeggianti ovunque, stemmi romboidali, capitelli pensili (“arranques”).
Tra i tantissimi edifici di questo tipo: Palazzo Bellomo e Palazzo Gargallo a Siracusa, Palazzo Corvaja e Ciampoli a Taormina, Palazzo Abatellis a Palermo, Palazzo Pollicarini a Enna, ma anche in case meno “nobili” e conosciute come quella appartenente alla famiglia Reattino a Castanea (Messina),
La maestria araba, ormai sicilianizzata, la pietra locale calcarea di Siracusa o lavica dell’Etna, danno spesso vita a elaborazioni del tutto nuove, quindi isolane. Ma ci sono anche elaborazioni napoletane, come l’arco durazzesco-catalano, che, introdottesi nell’isola soprattutto attraverso Messina, porta della Sicilia, assumono un aspetto tipicamente nostrano. Molte di queste elaborazioni siculo-campane-catalane avranno luogo soprattutto a Taormina e in particolare sul Corso Umberto, ma anche a Forza D’Agrò.
Fra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 in Spagna si attua l’unificazione e questo comporta un cambiamento anche in Sicilia, sia politicamente che stilisticamente. Tranne qualche raro esempio, da questa data, in Sicilia è giusto parlare di architettura spagnola e non più di “gotico catalano”. Lo dimostrano la bifora del Tesoro del Duomo di Messina, la finestra di Savoca, il portale di S. Placido Calonerò a Pezzolo (Messina) e il portale di Palazzo Corvaja a Taormina, tutti gotico – isabellini o dei Re cattolici, un tardo gotico spagnolo con influenze fiamminghe e arabe proveniente dal centro della Spagna. Questo stile si trasformerà in “plateresco” dall’unione, sempre in Spagna, con gli elementi rinascimentali italiani; un esempio magistrale è il Palazzo della Giudecca a Trapani.
Anche l’architettura “herreriana” assolutamente spagnola è presente spesso in Sicilia. Essa prende il nome da Juan de Herrera, autore del Monastero dell’Escorial e si sviluppa sotto il regno di Filippo II (1556-1598); ma continua anche nel ‘600. E’ uno stile tardo rinascimentale, molto sobrio e composto, che si caratterizza per il suo rigore geometrico e i suoi volumi puliti; unico vezzo gli acroteri terminali a forma di “bolas” (palle); tutte caratteristiche presenti sia nella torre palazzo di Sant’Angelo di Brolo che nella Loggia della Sagrestia di Randazzo.
Saranno due le tendenze stilistiche che perdureranno per tutto il ‘500 e la prima metà del ‘600. Da una parte lapicidi e intagliatori continuano a lavorare alla maniera spagnola, in molti casi con decorazioni isabelline e plateresche, dall’altra è la rinascenza italiana e poi il barocco che, molto timidamente, si introdurrà nell’isola, soprattutto in città come Messina (porta della Sicilia) e Palermo (Capitale).
E’ decisamente borrominiana, quindi romana, la facciata concavo – convessa usata da GuarinoGuarini nella non più esistente chiesa dell’Annunziata dei Teatini a Messina, e poi sfruttata nel levante della Sicilia, ma è decisamente innovativa la struttura piramidale e slanciatissima della facciata messinese dell’architetto modenese, in antitesi con la compostezza delle chiese romane e più in linea col gusto spagnolo.
Alla colta interpretazione degli architetti di scuola italiana, si opporrà soprattutto nella Sicilia orientale l’ordine gigante del barocco proveniente dalla Spagna, lo sviluppo in altezza delle facciate delle chiese serrate fra alti campanili a bulbo, i portali “retablò”, utilizzati anche in America Latina, o l’effetto pittorico delle facciate dei palazzi dovuto al contrasto tra il colore degli elementi architettonici e quello della facciata. In molti casi è giusto appellare questo tardo barocco: “churrigueresco”, piuttosto che “rococò”.
Sulla fine del 600 e gli inizi del 700, infatti, fra gli architetti di matrice italiana operanti in Spagna, emerge lo spagnolo Jose Benito Churriguera con la sua prima opera “El Catafalco para las exequias mortuorias de M. Luisa de Borbon“. Quest’opera dà vita in Spagna ad un nuovo stile, coevo del “Rococò” francese, il cosiddetto “Churrigueresco“, diffusosi, ovviamente, anche in Sicilia.
Michele Palamara