Castelli e torri “alla moderna” a Messina

Da sempre la Sicilia, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, è stata centro di interessi militari. L’entroterra è oggi disseminato di castelli attorno a cui sono sorti, come in un abbraccio, splendidi borghi medievali. La costa, invece, è piena di torri, per lo più di avvistamento.

Bizantini, arabi, normanni, svevi, aragonesi e spagnoli hanno lasciato ognuno il loro segno differente.

Mura e torrette bizantine ci sono sul monte Palostrago a Rometta Superiore. Una torre araba è ancora oggi leggibile nel complesso di palazzo Corvaja a Taormina. Possenti masti normanni li troviamo a Motta Sant’Anastasia, Paternò, Adrano, ma anche a Milazzo. Torri ottagonali sveve ci sono a Enna (di Federico) e a Trapani (Colombaia). Per tutto il ‘300, invece, le lotte tra aragonesi e famiglie baronali locali hanno portato alla realizzazione e alla ristrutturazione di castelli aggrappati sulla roccia, come quelli di Caccamo e Mussomeli, ma soprattutto di palazzi-torre ermetici al piano terra e ampiamente sfinestrati appena sopra la cornice marcapiano; il più bello per me è quello dei Duchi di Santo Stefano a Taormina.

Ma spesso ci troviamo davanti a torri e castelli aggiustati e rimaneggiati dal governante di turno e per leggere queste stratificazioni occorre un occhio attento e conoscitore della storia dell’architettura siciliana.

Dal ‘400 cambia un po’ il mondo dell’architettura militare. Con l’evoluzione dell’artiglieria, bisognava adeguare le strutture difensive e ricostruirle “alla moderna”. Si sostituiscono le torri alte di pianta rotonda con quelle basse di pianta quadrata. Si aumenta lo spessore dei muri. Si cominciano ad adottare ovunque le scarpe cordonate.

Gli aragonesi, però, danno anche un aspetto “residenziale” ai loro castelli, aggiungendo elementi architettonici aggraziati come portali, scale e finestre gotico catalane. Si vedano Montalbano e Santa Lucia del Mela con le loro facciate completamente sfinestrate del piano superiore.

Dal ‘500 si cominciano ad usare i bastioni ad angolo acuto, si costruiscono cittadelle a pianta centrale e si diffonde la trattatistica.

Una nuova architettura “alla moderna”, in cui brillano italiani e fiamminghi, ma che in Sicilia è ricca di elementi stilistici provenienti adesso dalla Spagna unificata (gotico isabellino, plateresco, herreriano) e non più dalla Catalogna.

Coi viceré in Sicilia si attua una vera e propria revisione del sistema di fortificazioni costiere. Si deve capire quante torri ci sono, quali vanno demolite, quali restaurate e quali costruire ex novo. Vengono incaricati prima Tiburzio Spannocchi e poi, tra il 1583 e 1584, il fiorentino Camillo Camilliani.

Spannocchi individua “ventitré torri da costruire, sessantadue torri esistenti ed in parte da Rimediarsi”, Camilliani disegna un vero e proprio modello che verrà utilizzato per centinaia di torri in tutta la Sicilia, con “caditoia” sulla porta d’ingresso lato monte e garitte negli angoli. Entrambi abilissimi disegnatori, con pochi tratti colorati e legende ben messe, rendono chiarissimo lo stato di fatto e di progetto.

Queste torri, di notte con fuochi e di giorno con fumi, comunicavano il pericolo alle torri di mezza costa che, a loro volta, lo rilanciavano alle fortezze in altura.

Ma che tracce abbiamo nella provincia di Messina di torri ed edifici militari “alla moderna”?

Certamente la Torre (poi lanterna) del Montorsoli, certamente la nota cittadella messinese disegnata da Carlos De Grunembergh e certamente il Castello Gonzaga. Ma è da annoverare anche il castello Samonà di Spadafora, probabilmente realizzato nel XV secolo su una antica torre di avvistamento e poi rimodulato e restaurato per renderlo conforme al palazzo-torre descritto da Vincenzo Scamozzi nel trattato “L’Idea della Architettura Universale”.

Ma possiamo anche “immaginare” come poteva essere: la Torre Rasocolmo, il palazzo-castello dei Principi di Resuttano a Condrò, quello Vianisi a Tremestieri (Messina) e, perché no, lo sconosciuto torrione di Contesse.

Questo rudere completamente sgarrupato che si trova tra lo stadio San Filippo e l’autodromo dei go-kart, fu realizzato a guardia degli antichissimi borghi di Contesse e Pistunina. La sua pianta sembra costituita dall’intersezione di un cerchio con due quadrati ruotati.  E’ certamente una modifica realizzata tra ‘500 e ‘600 da qualche ingegnere “alla moderna” operante a Messina a quel tempo. Forse Ferramolino? La torre preesistente era più alta e quindi più vulnerabile, secondo le nuove concezioni del tempo. L’ingresso, come sempre, lato monte. Fra i vari fabbricati addossati dalla famiglia De Pasquale, secondo Franco Chillemi, anche qui c’erano i resti di aggraziati portali quattrocenteschi gotico-catalani.

 

Teatri di Sicilia

Da sempre la Sicilia, grazie alla sua posizione geografica, al centro di interessi militari e commerciali, è stata nell’arco dei secoli luogo dove diverse culture, dalle greche alle arabe, dalle francesi alle spagnole, si sono unite dando vita a grandissime espressioni in campo artistico, spesso anche a sperimentazioni del tutto innovative per il tempo.

Così è avvenuto anche nel campo del teatro e dello spettacolo, con le tradizionali vastasate, di origini medievali, e con l’opera dei pupi, sostituiti più tardi da attori in carne e ossa, che con le loro compagnie spopolavano per tutti i teatri d’Italia.

Come tipologia architettonica il teatro in Sicilia fu importato dai greci: la “cavea” semicircolare ospitava gli spettatori; la pendenza seguiva l’andamento naturale del terreno su cui veniva realizzato. Nel teatro romano, invece, la pendenza veniva realizzata artificialmente con spesse mura perimetrali (Taormina e Catania).

L’anfiteatro, spesso confuso col teatro, è invece una struttura ellittica chiusa, costruita per ospitare altri tipi di eventi. La Sicilia è piena di teatri greci, greco-romani, romani e anfiteatri (Siracusa).

Ma dopo l’età classica niente più si sperimentò in architettura per questo utilizzo. La pausa medievale fu lunga, anche se a Palermo, ai tempi di Federico II, esisteva una grande corte all’interno del Palazzo Reale, perimetrata da loggiati, denominata Aula Regia o Sala Verde che svolgeva funzione di teatro; essa era, anche, denominata “Theatrum imperialis palacii”.

E’ col Rinascimento che si comincia a pensare a teatri stabili coperti. Il più antico è il Teatro Olimpico a Vicenza, di Andrea Palladio (580). Ma il primo in assoluto fu probabilmente il Teatro in Campidoglio a Roma (1513)

Da lì in poi è un susseguirsi di sperimentazioni che, influenzate dai “corral” spagnoli e dai “teatri elisabettiani”, porteranno a definire il cosiddetto “teatro all’italiana”.

In questo lungo lasso di tempo, nel 1551, a Messina, venivano svolte rappresentazioni teatrali, nella casa di Paolo La Rocca; Giuseppe La Farina ne descrive gli ambienti. A Catania esistevano dall’inizio del 600, tre teatri di cui non si conosce la struttura: teatro della Casa Comunale, Teatro dell’Università, Teatro dei Gesuiti. Ma esistevano anche tanti “teatri di sala” realizzati in palazzi nobiliari e castelli-palazzo (dal 1664 il Palazzo dei Principi di Valdina a Palermo, dal 1668 il Palazzo Rodinò e l’Accademia degli Agghiacciati a Palermo, dal 1700 il Castello di Ciminna, dal 1709 la Villa Valguarnera a Bagheria, dal 1724 il Teatro “La Munizione” inserito nel magazzino della munizione a Messina, dal 1726 i Magazzini di Palazzo Valguarnera a Palermo, dal 1740 il Palazzo Senatorio a Siracusa).

Mentre dapprima il teatro era finanziato e frequentato esclusivamente dai nobili, ad esclusione delle vastasate e dell’opera dei pupi, che si realizzavano anche in piazza, dall’inizio dell’800 nelle grandi città di mare l’interesse per il teatro si diffonde fra la società borghese.

Tipologicamente il teatro siciliano assume, quindi, le caratteristiche del “teatro all’italiana” e da architettura di un interno diventa un vero e proprio monumento definibile nel tessuto urbano.

Il “teatro all’italiana” si costruisce, quindi, per lo specifico utilizzo di teatro, come avveniva in età classica e in età rinascimentale. Spesso si trova nei punti nevralgici della città. Nella piazza principale accanto al municipio, a volte incorporato nello stesso, come nel Teatro Garibaldi di Enna, oppure accanto alla Chiesa, come il Teatro Comunale di Vittoria o come il Bellini a Palermo, contiguo alla Martorana.

Luogo di culto, ma anche di semplice incontro, il teatro diventa un obiettivo prioritario per quasi tutte le amministrazioni. Nel 1868 si contano in Sicilia più di 80 teatri.

Nella prima metà del 800 la realizzazione dei teatri in Sicilia, quasi sempre in forme neoclassiche, perchè ben rappresentano l’edificio pubblico, è spinta da un sentimento liberale.

Messina, grazie al suo porto, ha vissuto secoli di altissimo splendore economico, urbanistico ed architettonico, godendo di grandi privilegi da parte dei dominatori. Ai primi dell’800 si è appena realizzata la nuova Palazzata ad opera del Minutoli sullo stesso luogo di quella seicentesca del Gullì. La città comincia a rivivere, e la sua esigenza di competere con gli altri grandi porti europei si manifesta nel voler costruire un nuovo teatro. Progettista è l’arch. Valente, napoletano, il quale, sia pur sacrificando l’ampiezza della sala, dota il teatro di una varietà di ambienti come, il caffè, il biliardo, sale per giochi e per feste, a dimostrazione di come il teatro ottocentesco siciliano volesse essere non solo un luogo di cultura ma anche un ambiente di rappresentanza, un po’ alla maniera francese.

Malgrado il sacrificio della sala, il teatro messinese a quel tempo era il quinto in Italia per capienza. Nella sua sobria composizione architettonica rispondeva perfettamente al tipo canonico italiano.

Sulla fine dell’800 si ha una nuova specializzazione nel teatro delle grandi città siciliane. Ecco perché a Palermo sorgono il Teatro Massimo Vittorio Emanuele, teatro esclusivamente lirico, e il Politeama Garibaldi, teatro polivalente (dal greco polus=molto e theaomai=vedere).

Col Teatro Massimo, prima Giovan Battista Basile e poi il figlio Ernesto raggiungono il massimo della monumentalità, rompendo il rapporto con la scala urbana, quasi a simboleggiare in maniera esasperata la sacralità dell’evento lirico. Internamente prestano grandissima attenzione all’ottimizzazione dell’ottica e dell’acustica costruendo un ampissimo palcoscenico, al tempo il secondo in Europa.

Denunciando all’esterno con chiarezza la distribuzione degli spazi interni e con l’alto tamburo esplicitando l’edificio teatrale, i Basile approdano a una soluzione simbolica e funzionalista al tempo stesso.

Col Teatro Politeama Garibaldi, Giuseppe Damiani de Almeyda fornisce Palermo di un altro importante fulcro urbano. Il grande semi-cilindro composto da un doppio ordine di colonne pompeiane nasconde al suo interno una sala a ferro di cavallo. Ma oltre a due ordini di palchi l’architetto fa costruire una cavea di tipo palladiano, un primo passo verso il nuovo teatro contemporaneo.

Sia Ernesto Basile che Giuseppe Damiani de Almeyda vengono definiti da Enrico Calandra, nella sua “Breve storia dell’architettura in Sicilia”, i maggiori architetti italiani dell’800. Lo stesso Semper, presidente del concorso per il teatro Massimo e autore del Teatro dell’Opera di Bayreuth, ebbe a complimentarsi per il rifiorire dell’architettura siciliana.

All’inizio del 900 i teatri in Sicilia diventano 150. Oggi saranno una cinquantina quelli inutilizzati.

Michele Palamara

Borghi fantasma dell’ERAS

I sette borghi fantasma dell’ERAS, nel territorio di Francavilla, sono anche detti Villaggi Schisina (dal nome del più grande di questi). Furono realizzati nel 1950 dall’Ente per la Riforma Agraria in Sicilia con lo scopo di adibirli ad abitazioni per i contadini assegnatari delle terre circostanti. I loro nomi: Schisina, Borgo San Giovanni, Bucceri-Monastero, Pietra Pizzuta, Malfìtana, Piano Torre, Morfia.

Sicaminò

Sicaminò è un borgo con azienda agricola, abbandonato dopo la riforma agraria degli anni 50. Era di proprietà della famiglia Avarna, di origine normanna. L’ultimo discendente, il Duca Giuseppe Avarna, poeta e scrittore, morì nel 1999 in un tragico incendio. Separato dalla moglie, che viveva nel castello, e risposato con una giovane hostess; si narra che suonasse le campane della chiesetta adiacente, ogni volta che faceva l’amore. In una famosa intervista a Enzo Biagi però, il Duca smenti questa “favola”. La chiesetta, in stile neogotico, sorge, probabilmente, sui ruderi di una chiesa bizantina donata dal Conte Ruggero I ai basiliani. Ancora visibile dalle finestre il locale ‘anni 70’ di proprietà dei familiari del Duca con gli arredi dell’epoca. 

Annunziata dei Teatini di Guarino Guarini: sperimentazioni di architettura obliqua a Messina

Nell’arco dei secoli la Sicilia, grazie alla sua posizione geografica, è stata campo di sperimentazioni stilistiche, durante le quali spesso ha avuto, ma a volte ha anche dato.

Sperimentazioni importanti le compì a Messina il padre teatino Guarino Guarini, modenese di scuola romana, quando nel 1662 portò a termine la facciata della Chiesa dell’Annunziata dei Teatini, poi distrutta dal terremoto del 1908.

Facciata dell’Annunziata dei Teatini

Già dalla fine del 400, dopo un lungo innamoramento verso le forme del levante spagnolo, la Sicilia aveva riaperto i rapporti artistico-culturali con l’Italia. E Messina ancor prima, tanto che Baboccio da Piperno, all’inizio del XV secolo, scolpiva in un tardo gotico italiano, non catalano, il portale della cattedrale (straordinaria è la somiglianza con quello della Cattedrale di Napoli).

 

Portale del Duomo di Messina
Portale della Cattedrale di Napoli

Dal 1463 è presente nell’isola Domenico Gagini. Con lui una serie di marmorari lombardi e toscani aprono le loro botteghe a Palermo e nello stesso periodo è presente anche Francesco Laurana. A Messina, invece, nel 500 operano i toscani Calamech e Montorsoli, tanto per citarne alcuni.

Saranno quindi due le tendenze stilistiche che perdureranno per tutto il 500 e la prima metà del 600. Da una parte lapicidi e intagliatori continuano a lavorare alla maniera spagnola, in molti casi con decorazioni isabelline o plateresche, dall’altra è la rinascenza italiana e poi il barocco che, dapprima timidamente, poi in maniera più decisa detteranno i connotati dell’architettura siciliana.

Sarà quindi la tipologia architettonica della Controriforma, che si realizzava a Roma in quegli anni, che richiamerà l’attenzione degli architetti barocchi operanti in Sicilia. Gli stessi Vermexio, di origine spagnola, opereranno a Siracusa seguendo i trattati vignoleschi. Mentre più tardi ancora, durante la ricostruzione della Sicilia orientale, sarà ancora il gusto scenografico dettato dalla magnificenza spagnola a ispirare scultori e architetti siciliani, a volte con soluzioni “churrigueresche”, piuttosto che “rococò”.

Architetti siciliani si recano a Roma per apprendere la maniera barocca continentale e utilizzarla al loro rientro, consapevoli di intervenire in un clima diverso; architetti continentali scendono in Sicilia a portare le loro conoscenze e a sperimentare nuove forme, questo è appunto il caso di Guarino Guarini.

E’ decisamente borrominiana, quindi romana, la facciata concavo-convessa usata dal Guarini nella chiesa dell’Annunziata dei Teatini e poi sfruttata a Noto, in San Domenico, e un po’ ovunque nella Sicilia orientale.

E’ decisamente innovativa la struttura piramidale e slanciatissima della facciata messinese, in antitesi con la compostezza delle chiese romane e più confacente con lo slanciato barocco spagnolo. Ma è ancora più innovativa la posizione della facciata rispetto all’asse principale della chiesa.

A Guarini venne dato, infatti, incarico di realizzare la facciata di un corpo preesistente e, per un problema di allineamento con la strada, decise di realizzarla in diagonale rispetto all’asse principale della chiesa, dovendosi così confrontare con problemi geometrici non indifferenti come nel portale di ingresso.

Alla stessa maniera, 18 anni dopo, il grande genio matematico, filosofo e architetto spagnolo Juan Caramuel Lobkowitz, per nascondere l’asimmetria che esisteva fra la cattedrale di Vigevano e la piazza, realizzò una facciata scenografica ortogonale all’asse principale della piazza e allo stesso tempo obliqua rispetto all’asse della chiesa.

Cattedrale di Vigevano

Ancora più tardi, Conrad Rudolf, detto “el romano”, risolverà il problema del congiungimento della cattedrale di Valencia, in Spagna, con la torre preesistente del Miguelete.

Cattedrale di Valencia

Lo stesso Conrad Rudolf, nella memoria del progetto afferma di aver visto in Italia un’opera con disposizioni simili. Non poteva che riferirsi a Guarini o a Caramuel.

Facciata borrominiana/guariniana della Cattedrale di Valencia

L’opera del Guarini a Messina fu certamente d’esempio per tutte le architetture borrominiane presenti in Sicilia, nonchè influì sullo spirito del giovane architetto messinese Filippo Juvarra, operante più tardi anche a Madrid.

Ma è quanto mai plausibile supporre che la sua opera messinese non sfuggì alla curiosità di Caramuel, il quale nel 1678 pubblicava un trattato sull’architettura retta e obliqua, 10 anni dopo quello del Guarini sull’architettura civile, anche se pubblicato postumo soltanto nel 1737.

Caramuel fu grande amico di un altro sacerdote e astronomo: il ragusano Giovanni Battista Hodierna, con il quale condivideva gli stessi interessi. E’ possibile che Caramuel, titolare della sede episcopale di Otranto in Puglia, prima di essere vescovo di Vigevano, abbia visitato la Sicilia?

Guarini ha forse ispirato l’opera architettonica lombarda del grande genio polivalente spagnolo Caramuel, ma, comunque, ha certamente avuto un ruolo nel dibattito sull’architettura obliqua. Del suo “competitor” spagnolo diceva: “un certo che ha scritto nella favella Spagnuola di architettura“.

D’altra parte Juan Caramuel e Guarino Guarini, insieme al pittore e monaco spagnolo Juan Ricci, sono considerati i trattatisti più importanti del XVII secolo dell’ordine “salomonico“. Le loro opere furono capitali nello sviluppo di quello che conosciamo come “ordine salomonico” (colonne tortili) senza il quale sarebbe impossibile spiegare l’architettura barocca sia in Sicilia che in Spagna.

E’ tuttavia doverosa una riflessione. E’ possibile che la problematica della facciata della cattedrale di Valencia sia stata risolta sull’esempio di quella dell’Annunziata dei Teatini; ma è anche vero che nella città spagnola, già dalla seconda metà del XV secolo, e anche all’interno della stessa cattedrale, operavano Francesc Baldomar e il suo allievo Pere Compte, i quali si sbizzarrivano nella realizzazione di bucature oblique negli spessi muri medievali e volte a crociera coprenti spazi trapezoidali.

Storici contemporanei dell’architettura spagnola hanno notato in alcune di queste opere valenziane del tardo 400 la presenza dello stemma reale di Sicilia. Dando uno sguardo al passato, nella nostra isola non è difficile imbattersi in impianti militari ed ecclesiastici normanni, come il castello di Castellammare del Golfo e il duomo di Cefalù, più tardi anche chiaramontani, come il Castello di Mussomeli, con distorsioni planimetriche risolte con bucature, archi ed altri elementi obliqui, precisamente come accadde dopo in Spagna.

Michele Palamara

Gotico e tardo gotico a Taormina

Le prime manifestazioni pre-gotiche in Sicilia si ebbero durante il periodo di governo normanno. Il duomo di Cefalù si slancia in altezza chiuso fra due campanili come una vera e propria cattedrale gotica; la volta a crociera costolonata del santuario (1132) si poggia su grandi archi diagonali ogivali, ed è tra le più antiche del genere.

Gotici europei sono anche i castelli e i palazzi costruiti da Federico II di Svevia, e gotico è lo stile “chiaramontano” del 300. Uno stile, quest’ultimo, assolutamente siciliano, usato soprattutto nell’architettura civile e militare da quelle famiglie baronali locali che si opponevano alla cultura aragonese-catalana.

Il palazzo-torre svettante in altezza, massicciamente definito nelle sue quattro facce, era serrato al piano terra e finestrato negli ordini superiori.

Nell’alto pian terreno si apriva solo il portale, avvolto da ghiera non aggettante, a volte addolcita dal variare della pietra lavica e della pietra bianca di Siracusa, a volte decorato a zig-zag.

Nel piano nobile, con minore preoccupazione difensiva, si svolgeva lo schieramento delle bifore o delle trifore, direttamente poggianti su cornicione marcapiano, sorrette da robuste colonnine e racchiuse da ghiere, o alla normanna o alla sveva.

A Taormina, il Palazzo dei Duchi di S. Stefano presenta tutti gli elementi sopra descritti ed è tra i più significativi esempi di quest’architettura.

Nel 400, invece, il gotico è “tardo” o “fiammeggiante” e, stavolta, proviene dal levante spagnolo. Al contrario del resto di Europa non svetta in altezza, tutt’altro.

Taormina mostra una serie innumerevole di portali e finestre chiaramente ispirati alla Catalogna. Il tutto è scandito da una chiarezza nelle modanature che prelude al rinascimento.

Lo stile ha più inserti siciliani rispetto alle coeve costruzioni palermitane o siracusane. L’arco è fondamentalmente “durazzesco”, cioè ribassato ed inquadrato in una cornice rettilinea partente da metà del piedritto, e trova riscontro nella Messina pre-terremoto (Casa Anselmi).

Tutte le aperture, finestre o porte, sono incorniciate dalla pietra lavica, così come le fasce dei davanzali, quasi ad evidenziare il limite fra l’intaglio fine in pietra bianca di questi elementi e l’opera incerta del resto della facciata. Lungo l’intradosso scorre una sottile cornice, interrotta solo all’altezza dell’imposta dell’arco da un nodo floreale.

A Taormina, i palazzi di questo tipo meglio conservati sono: palazzo La Floresta, palazzo Ciampoli e palazzo Corvaja.

Il primo presenta un grazioso patio con scala scoperta sorretta da archetti a fiamma; oggi B&B.

Il secondo, recentemente restaurato, si alza maestoso dalla cima di una scalinata che dà sul Corso Umberto. Su una cornice marcapiano si aprono le bifore poggianti sulle esili colonnine. Il portale, con una semplice curva, sotto la nitida cornice aggettante, reca in sommità lo stemma romboidale alla maniera aragonese.

Il terzo è l’esempio più completo. La sua realizzazione risale ai primi del XV secolo, anni in cui veniva costruita rapidamente la sala che ospitò l’importante parlamento siciliano del 1411, e che si univa alla torretta araba preesistente ed al trecentesco salone del Maestro Giustiziere, dando vita ad un patio dalle forme irregolari come avveniva nel levante spagnolo, ma anche a Siracusa, Trapani, Palermo, Enna e Messina.

Quasi tutte le case del borgo quattrocentesco (Corso Umberto) di Taormina dovevano presentare caratteristiche simili. E’ in questa epoca che avviene il collegamento tra il vecchio quartiere arabo Cuseni (Porta Catania) e quello che invece era l’Agorà ( ἀγορά) e poi Forum della città in epoca classica (Porta Messina). Attraverso un ampio ingresso ci si immetteva in un patio irregolare su cui affacciavano magazzini o botteghe. La scala scoperta portava al piano nobile e una scala interna conduceva alle abitazioni della servitù.

In Palazzo Corvaja, la scala a una sola rampa conduce ad un arco a fiamma come nella Lonja di Valencia.

La trifora e le quattro bifore sono senza dubbio gli elementi che più manifestano il gusto fiammeggiante nel palazzo. La trifora, ricostruita in epoca recente, poggia su esili colonnine con abaco espanso, tipicamente catalano, ed è composta da archetti ogivali racchiusi da una ghiera a doppia inflessione contornata a sua volta da pietra lavica sul modello delle quattro bifore originali.

Il portale è “durazzesco”, cinquecentesco, incorniciato da una ghiera trattata con sentimento naturalistico, e presenta il motivo dei cordoni francescani come nella Casa del Cordon a Burgos. Lo stile si avvicina al “gotico-isabellino” o “dei re cattolici”, e non è più del levante spagnolo bensì del centro della Spagna.

L’aspetto attuale del palazzo lo dobbiamo ad Armando Dillon. E’ lui l’autore dell’ultimo significativo restauro.

Un restauro, da alcuni discusso, ma che ha seguito una linea progettuale ben precisa, cioè quella di riportare il palazzo alla tipologia architettonica di casa con patio e scala scoperta, alla maniera catalana.

Michele Palamara

Palazzo dei Duchi di Santo Stefano a Taormina
Portale “catalano-durazzesco” di Palazzo Penne a Napoli
Portale di Palazzo Corvaja a Taormina
Escaleras descubiertas in Spagna e in Sicilia
Portale della chiesa di S. Pablo a Valladolid
Uno dei tanti portali catalano-durazzeschi sul Corso Umberto
Palazzo Ciampoli
Bifora di Palazzo Ciampoli

 

Il palazzo torre spagnolo di Sant’Angelo di Brolo

Il baglio fortificato di Sant’Angelo di Brolo in c/da Piano Croce, è composto da un palazzo torre, un palazzo residenziale e una chiesa con campaniletto a vela; il tutto recintato e raccolto attorno a un cortile centrale.

Oltre che in Sicilia, attorno al 500, di questi complessi architettonici ne nacquero tantissimi anche in Spagna.

Il palazzo torre di Sant’Angelo di Brolo sorse forse sui ruderi di una cuba bizantina, e si presenta con tutte le caratteristiche del tardo rinascimento spagnolo, più precisamente “herreriano”.

L’architettura “herreriana” prende il nome da Juan de Herrera, autore del Monastero dell’Escorial. Si sviluppa sotto il regno di Filippo II (1556-1598), ma continua anche nel ‘600, sia in Spagna che, di conseguenza, in Sicilia.

E’ uno stile tardo rinascimentale, molto sobrio, che si caratterizza per il suo rigore geometrico e i suoi volumi puliti; unico vezzo gli acroteri terminali a forma di “bolas” (palle); tutte caratteristiche presenti nella torre palazzo di Sant’Angelo di Brolo.

In sommità c’è anche la merlatura e un “matacan” (gettapietre, quindi “mazzacani”, quindi “ammazza nemici”) per ogni lato.

Si veda il raffronto tra il complesso siciliano e “las casas fuertes” (palazzi fortificati) di Santander e Hoznayo, entrambi in Cantabria.

Michele Palamara

SANT’ANGELO DI BROLO

SANTANDER

HOZNAYO

La cultura architettonica greca e spagnola in Sicilia

La Sicilia, grazie alla sua posizione geografica, sempre al centro di interessi militari e commerciali, è stata nell’arco dei secoli, campo di sperimentazione artistica di popoli di cultura diversa, e quindi importante veicolo culturale internazionale. La cultura greca e quella spagnola sono quelle che hanno influito per più secoli in maniera diretta sull’architettura isolana.

Dal VI al XIII sec., dopo la lunga pausa romana, in Sicilia si torna a “parlare greco”. Nel 535, infatti, durante la guerra gotica, l’isola viene occupata da Belisario ed annessa all’Impero bizantino. Agli anacoreti già presenti sull’isola, si aggiungeranno quindi altri religiosi grechi che edificheranno templi adatti al proprio rito.

Sotto il successivo dominio arabo, ai basiliani, monaci per lo più di rito greco, sarà concesso di rifugiarsi sulle alture. A seguire, i re normanni decideranno, invece, di finanziare i monaci devoti a S. Basilio, per far controllare loro il territorio, imponendo tutt’al più modifiche “basilicali” alle piante delle chiese.

Certamente greca, infatti, è la pianta centrale, più adatta al rito ortodosso: circolare, quadrata, ottagonale o a croce con bracci uguali. Molto utilizzata è la cupola emisferica, che esternamente appare ribassata grazie all’innalzamento dei muri del tamburo su cui poggia. Spesso è presente l’oculo centrale, come nell’architettura romana da cui deriva (Pantheon).
Ma è greca anche la monoaula absidata, che simboleggia la nave come mezzo di salvezza (arca di Noè).

Di tutti questi generi fanno parte probabilmente: la non più esistente chiesa di S. Maria di Portella a Castanea (Messina), la chiesa vecchia di Acqualadroni (Messina), la chiesetta sul monte Paleo Kastron a Rometta, la chiesa della Madonna del Loreto a Pezzolo (Messina), San Pietro di Deca a Torrenova, la “Rosata” di Rodì Milici, Santa Maria del Bosco ad Alì, la chiesa di S. Biagio a Castelmola, la chiesa di S. Marco a S. Pier Niceto, la chiesa della Badia a Piraino, la Madonna del Tonnaro e la chiesa di S. Rosalia a Castanea (Messina), S. Placido in Silvis a Giampilieri (Messina), l’Annunziata a Castelmola, S. Michele Arcangelo a Forza D’Agrò e ad Allume (Roccalumera), la chiesa di S. Nicola a Mili S. Pietro (Messina).

Al gruppo della cosiddetta architettura arabo-normanna, di cui fanno parte le più conosciute chiese palermitane e le “tre gemelle” della Val Demone, S. Pietro e Paolo a Itala e Casalvecchio e S. Maria a Mili S. Pietro (Messina), si potrebbe aggiungere anche la chiesa di S. Francesco a Taormina, per un periodo cattedrale della città. Gli elementi di questa architettura sono, molto sinteticamente, l’aspetto turrito, il campanile e l’arco pacatamente ogivale normanno, gli archi intrecciati, le colonne tortili e la cupola rialzata araba e, per l’area della Val Demone, l’effetto pittorico esterno dettato da materiali semplici come la lava, la pietra calcarea e i mattoni. Ma notevole è l’apporto greco, non solo nell’utilizzo dei mosaici interni nelle chiese palermitane, ma soprattutto nell’orientamento ad est e nell’aspetto centrico di alcune piante.

Dopo la pausa gotico sveva, dove notevole è la produzione militare e palaziale, piuttosto che ecclesiastica, nel 300, famiglie baronali locali, come i Chiaramonte, si oppongono militarmente e stilisticamente agli aragonesi/catalani.  E’ per questo che solo dal 400 in poi saranno, prima i catalani, poi gli spagnoli, a dettare i connotati dell’architettura siciliana; fino agli inizi del ‘700 allo stile rinascimentale e barocco italiano, si continuerà a preferire spesso il gusto spagnolo.

Usato già in epoca medievale (sala del camino nel castello di Milazzo), l’arco a diaframma (di rinforzo trasversale all’asse principale dell’edificio) è molto usato nell’architettura civile e militare trecentesca. Esempi significativi li ritroviamo nel castello di Mussomeli e nell’arco “riposizionato” di Castroreale. Ma gli elementi dell’architettura trecentesca “chiaramontana” sono soprattutto quelli considerati ormai indigeni, come gli archi pacatamente acuti normanni, le decorazioni a zig zag arabe su portali e balaustre, nonché le bifore e trifore di impronta sveva.

In questo periodo di guerre intestine, si costruiscono essenzialmente castelli e palazzi fortificati. Per questi ultimi l’aspetto è turrito, con piccole porte al piano terra, una cornice marcapiano e grandi finestre su di essa direttamente poggianti (Palazzo Mergulese a Siracusa, Palazzo Steri a Palermo, Palazzo dei Duchi di S. Stefano a Taormina).

Palazzo dei Duchi di Santo Stefano a Taormina

Nel ‘400 Siracusa, che era fra i più grandi porti siciliani, vedeva fiorire e intensificare la propria vita commerciale. La popolazione cresceva e la città non era pronta, col suo vecchio impianto urbanistico medievale, ad accogliere tutti. Fu così che, per incentivare e controllare le nuove costruzioni, la città ottenne l’approvazione dalla regina Maria d’Aragona per un progetto di legge che concedeva il diritto di esproprio per costruire un palazzo, o semplicemente per “extendere, ampliare et pulchrifacere” uno già costruito.

I governatori aragonesi e i ricchi banchieri e mercanti catalani, avevano piacere di rivivere nelle proprie case siciliane l’ambiente familiare. Grazie a questa nuova legge le nobiltà del levante spagnolo, ma anche la popolazione indigena, poteva acquistare e restaurare più lotti in maniera tale da formare patii, spesso irregolari, e poterli dotare di scale scoperte come era in uso a quel tempo in Catalogna, Valencia e Baleari. E’ per questo che in città come Siracusa, Taormina, Messina, Palermo, Enna, Trapani, è oggi possibile trovare case con patio e scala scoperta, costituite da elementi provenienti dal gotico civile catalano; più orizzontale che verticale, con le sue finestre architravate o ad arco ribassato, con portali ad ampia raggiera di conci, bifore e trifore con esile colonnina e abaco espanso, parapetti con cornici a zigzag, trafori fiammeggianti ovunque, stemmi romboidali, capitelli pensili (“arranques”).

Tra i tantissimi edifici di questo tipo: Palazzo Bellomo e Palazzo Gargallo a Siracusa, Palazzo Corvaja e Ciampoli a Taormina, Palazzo Abatellis a Palermo, Palazzo Pollicarini a Enna, ma anche in case meno “nobili” e conosciute come quella appartenente alla famiglia Reattino a Castanea (Messina),

La maestria araba, ormai sicilianizzata, la pietra locale calcarea di Siracusa o lavica dell’Etna, danno spesso vita a elaborazioni del tutto nuove, quindi isolane. Ma ci sono anche elaborazioni napoletane, come l’arco durazzesco-catalano, che, introdottesi nell’isola soprattutto attraverso Messina, porta della Sicilia, assumono un aspetto tipicamente nostrano. Molte di queste elaborazioni siculo-campane-catalane avranno luogo soprattutto a Taormina e in particolare sul Corso Umberto, ma anche a Forza D’Agrò.

Fra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 in Spagna si attua l’unificazione e questo comporta un cambiamento anche in Sicilia, sia politicamente che stilisticamente. Tranne qualche raro esempio, da questa data, in Sicilia è giusto parlare di architettura spagnola e non più di “gotico catalano”. Lo dimostrano la bifora del Tesoro del Duomo di Messina, la finestra di Savoca, il portale di S. Placido Calonerò a Pezzolo (Messina) e il portale di Palazzo Corvaja a Taormina, tutti gotico – isabellini o dei Re cattolici, un tardo gotico spagnolo con influenze fiamminghe e arabe proveniente dal centro della Spagna. Questo stile si trasformerà in “plateresco” dall’unione, sempre in Spagna, con gli elementi rinascimentali italiani; un esempio magistrale è il Palazzo della Giudecca a Trapani.

Anche l’architettura “herreriana” assolutamente spagnola è presente spesso in Sicilia. Essa prende il nome da Juan de Herrera, autore del Monastero dell’Escorial e si sviluppa sotto il regno di Filippo II (1556-1598); ma continua anche nel ‘600. E’ uno stile tardo rinascimentale, molto sobrio e composto, che si caratterizza per il suo rigore geometrico e i suoi volumi puliti; unico vezzo gli acroteri terminali a forma di “bolas” (palle); tutte caratteristiche presenti sia nella torre palazzo di Sant’Angelo di Brolo che nella Loggia della Sagrestia di Randazzo.

Saranno due le tendenze stilistiche che perdureranno per tutto il ‘500 e la prima metà del ‘600. Da una parte lapicidi e intagliatori continuano a lavorare alla maniera spagnola, in molti casi con decorazioni isabelline e plateresche, dall’altra è la rinascenza italiana e poi il barocco che, molto timidamente, si introdurrà nell’isola, soprattutto in città come Messina (porta della Sicilia) e Palermo (Capitale).

E’ decisamente borrominiana, quindi romana, la facciata concavo – convessa usata da GuarinoGuarini nella non più esistente chiesa dell’Annunziata dei Teatini a Messina, e poi sfruttata nel levante della Sicilia, ma è decisamente innovativa la struttura piramidale e slanciatissima della facciata messinese dell’architetto modenese, in antitesi con la compostezza delle chiese romane e più in linea col gusto spagnolo.

Alla colta interpretazione degli architetti di scuola italiana, si opporrà soprattutto nella Sicilia orientale l’ordine gigante del barocco proveniente dalla Spagna, lo sviluppo in altezza delle facciate delle chiese serrate fra alti campanili a bulbo, i portali “retablò”, utilizzati anche in America Latina, o l’effetto pittorico delle facciate dei palazzi dovuto al contrasto tra il colore degli elementi architettonici e quello della facciata. In molti casi è giusto appellare questo tardo barocco: “churrigueresco”, piuttosto che “rococò”.

Sulla fine del 600 e gli inizi del 700, infatti, fra gli architetti di matrice italiana operanti in Spagna, emerge lo spagnolo Jose Benito Churriguera con la sua prima opera “El Catafalco para las exequias mortuorias de M. Luisa de Borbon“. Quest’opera dà vita in Spagna ad un nuovo stile, coevo del “Rococò” francese, il cosiddetto “Churrigueresco“, diffusosi, ovviamente, anche in Sicilia.

Michele Palamara

 

 

 

La loggia “spagnola” di Randazzo Loggia "Sacrestia" realizzata nell’ambito del filone artistico dell'Escorial di Madrid

Randazzo, residenza estiva di Federico III d’Aragona e per un certo tempo anche centro del governo della Sicilia, fin dall’inizio del XIV secolo fu abitata dai nobili spagnoli, e pertanto fu ricchissima di palazzi, alcuni dei quali, adornati di pietra lavica, sono ancora la maggiore attrattiva dei visitatori più attenti.

Il quattrocentesco Palazzo Clarentanto Finocchiaro, ad esempio, col suo “alero” (tetto aggettante) e le sue bifore con fine colonnina, ricorda decisamente i palazzi della Catalogna e dell’alta Aragona.

Dei tanti elementi architettonici gotico catalani si è scritto, ma del tutto straordinaria è, invece, la Loggia Sacrestia, adiacente alla chiesa di Santa Maria, di impianto svevo.

Lo stile è tardo rinascimentale, ma non di importazione italiana, come avveniva soprattutto a Palermo e nelle grandi città siciliane, bensì spagnola.

L’edificio, risalente al 500, anni in cui venivano apportate delle modifiche alla chiesa, fu, forse, restaurato nel 600 dal messinese Agostino Scilla. Al piano terra la loggia, forse un tempo di vendita o di contrattazione, al piano superiore il tribunale ecclesiastico, divenuto poi sacrestia della chiesa.

La disposizione dei conci a faccia vista, l’aspetto turrito, le semplici bucature rettangolari protette da inferriate e con timpano sovrastante, gli acroteri terminali a forma di “bolas“, gli archi ribassati ci parlano decisamente spagnolo e precisamente di stile “herreriano“.

L’architettura “herreriana” si caratterizza per il proprio rigore geometrico, per la relazione matematica fra i distinti elementi architettonici, per i volumi limpidi, per il predominio del pieno sul vuoto e per l’assenza quasi totale di decorazione.

A volte è anche detto stile “escorialense“, alludendo all’Escorial di Madrid che serve come paradigma a questa corrente architettonica, opera di Juan de Herrera.

Sia la Sacrestia di Randazzo che i Municipi di Gijon, Castalla e Arnes, ma anche la casa de los Almaraz a Plasencia, distaccano per la loro severità, ottenuta grazie all’equilibrio delle forme che si dispongono simmetricamente nella struttura, e sono sormontate da acroteri a forma di “bolas“, dette anche “bolas escorialenses“, o altri elementi di verticalità e magnificenza che, allo stesso tempo contribuiscono a rafforzare la sensazione di simmetria.

Lo stile, conosciuto anche come manierismo classicista, si sviluppò in Spagna, e quindi anche in Sicilia, dalla fine del 500 a tutto il 600, anni in cui viene costruita la Sacrestia.

 

Michele Palamara

A sinistra Municipio di Arnes a destra Loggia Sacrestia di Randazzo

Municipio Gijon

Casa Los Almaraz a Plasencia

Municipio di Arnes

 

La loggia dei mercanti di Messina L'edificio realizzato alla fine del XVI secolo per i mercanti, divenuto poi Palazzo Senatorio della città

Per il suo porto naturale , tra i mari Jonio e Tirreno, rifugio sicuro di navi e mercanzie, Messina trasse cospicui vantaggi economici e ottenne privilegi da parte dei dominatori.
Dall’età classica fino al terremoto del 1908, le attrezzature marittime della città richiamavano le navi per i rifornimenti e le riparazioni e per i ricchi negozi con i commercianti del luogo.
Già al tempo dei romani Messina ebbe il privilegio del titolo di Città principale dell’Impero.
Crebbe nei secoli la sua potenza, e al tempo dei normanni, per l’aiuto offerto loro nella riconquista dell’isola ebbe ancora ulteriori privilegi fra i quali quello di battere moneta e di avere un Consolato del Mare.
Messina, come pure la Calabria, eccelleva nella produzione della seta, la quale commerciava con altre merci provenienti dalla Spagna, da Genova, dalla Toscana, da Venezia.
Nel 1296, Federico III D’Aragona istituiva la fiera franca annuale, e nel 1416 Ferdinando D’Aragona ribadiva questo privilegio trasferendola sulla cortina del porto. In questa fiera , che si svolgeva tra l e il 15 Agosto, tutti i mercanti, compresi quelli spagnoli esponevano le loro merci (dal ferro alla seta, dal cuoio ai ricami in oro) dentro tende prefabbricate.
Nel 1507, la città, affollata di mercanti di tutte le parti del mondo, che contrattavano i prezzi delle merci in luoghi precari, quali il palazzo della Dogana, non certamente idoneo all’uopo, mandò in Spagna degli ambasciatori per chiedere a Ferdinando D’Aragona una sede fissa per questi incontri.
Ferdinando D’Aragona acconsentì che si iniziassero i lavori.
Si decise, allora, di costruire questa Loggia al posto di un tratto di muro di cinta della città, di fronte al mare, accanto alla turrita porta della Dogana Vecchia, chiamata così, proprio perché portava al quel Palazzo della Dogana, già luogo d’incontro preferito dai mercanti.
I lavori terminarono nel 1527.
Dopo aver portato a termine l’edificio ad un solo piano, si intuì che quel palazzo per la sua centralità poteva essere sede anche di altre istituzioni o enti. Per cui, nel 1589 viene deciso un ampliamento notevole del fabbricato con una sopraelevazione in cui avrebbero dovuto avere sede la Tavola Pecuniara e il Senato (Municipio), peraltro secondo la tipologia delle logge spagnole col “ayuntamiento” al piano superiore.

Alcañiz

I lavori venivano, così, affidati a Giacomo Del Duca, un architetto di Cefalù.
Del Duca era allievo di Michelangelo. Con lui, a Roma, costruì Porta Pia e realizzò altri splendidi edifici.
Tornato a Messina nel 1589, dopo aver portato a termine la Cupola di Santa Maria del Loreto, divenne Ingegnere della città al posto di Calamech, morto un anno prima.
Nel 1599 i lavori della Loggia dei Mercanti vengono portati a termine.
All’ingresso una grande lapide recitava: “UT MERCATORUM UTILITATI CIVIUM ORNAMENTO REGIAE URBIS MESSANAE REGNI PROTOMETROPOLIS DIGNITATI CONSULERETUR……..” (Buonfiglio Costanzo G., Messina città nobilissima descritta in XIII libri, Venezia 1606). Ossia il palazzo veniva costruito “AFFINCHE’ SI PROVVEDESSE ALL’UTILITA’ DEI CITTADINI MERCANTI…….”. 
L’edificio, rivestito interamente di marmi pregiati, presentava, al piano terra, dove si riunivano i mercanti, nove lunghe finestre con cancelli di ferro, spaziate lateralmente da coppie di lesene doriche bugnate, e nove balconi, tra altrettante coppie di lesene d’ordine jonico, corrispondenti nel piano superiore. Sia le finestre che i balconi erano sormontati da piccole nicchie centinate con finestrelle, affiancate queste da volute a ricciolo. Una cornice a più scanalature marcava orizzontalmente i due ordini.
Questo schema ricordava l’interno della Chiesa di S. Maria in trivio dello stesso Del Duca.
Praticamente questa tipologia, è prettamente quella delle grandi logge mercantili appartenenti alla Corona d’Aragona (Perpignan, Palma, Saragoza, Valencia), ma con uno stile importato dall’Italia. 

Messina

Perpignan

Non è da escludere che, nel suo involucro esterno realizzato sulla fine del secolo XVIII, la Lonja di Barcelona non abbia avuto come esempio  l’importantissima loggia messinese, certamente non inferiore alle altre coeve “lonjas” spagnole, se non altro per dimensioni.

Barcelona

Nel 1602 si costruì una nuova sede per il Senato in Piazza Duomo, su progetto del Calamech, morto pochi anni prima. Per cui l’edificio sulla marina venne destinato esclusivamente ai Mercanti, al consolato del Mare, al Consolato della Seta e più tardi anche ad Archivio Notarile.
E’ da sottolineare, comunque, il fatto che il nuovo palazzo del Senato in piazza Duomo, secondo lo storico Buonfiglio, è solo parzialmente  terminato in quella data, e probabilmente ad opera dello stesso Del Duca.
Nel 1622, la Loggia dei Mercanti veniva inglobata e dotata di tutti i servizi connessi alle attività mercantili, comprese le abitazioni dei mercanti, da quella enorme schiera di palazzi, chiamata “Palazzata”, famosa in tutto il mondo, anche come “teatro di Palazzi” per la bellezza del suo insieme e per lo spettacolo che offriva ai naviganti che entravano nel porto di Messina. L’incarico fu dato a Simone Gullì, il quale in soli due anni la portò a termine.
La costruzione, addirittura un chilometro e mezzo, venne ordinata da Emanuele Filiberto di Savoja, principalmente per dare dimora a quei mercanti, provenienti in massima parte dalla Spagna, che affollavano in quel periodo Messina e i quali necessitavano di dimore vicino al porto per attendere meglio ai loro commerci.
Tuttavia la città era già abbastanza ristretta fra le proprie mura e non aveva zone da destinare a nuove edificazione.
Si decise, pertanto, di abbattere le vecchie mura, sull’orma delle coeve città spagnole e portoghesi, e di costruirvi la Palazzata al loro posto, riutilizzando, peraltro, le stesse pietre, in mancanza di cave nelle vicinanze.
Inoltre, la Palazzata avrebbe difeso la città dai venti e dal contatto immediato con la tumultuosa e malsana zona di traffico marittimo e mercantile.
Al piano terra vi erano i magazzini e le botteghe. Ai piani superiori le abitazioni di mercanti, banchieri e famiglie benestanti
Al centro rimaneva, così, la Loggia dei Mercanti, nella propria maestosità.
A sinistra della Loggia dei Mercanti c’era la Porta della Loggia, forse dello stesso Del Duca, con la statua del Nettuno del Montorsoli di fronte.
Dalla porta della Loggia si impartiva l’attuale via della Loggia dei Mercanti. 
La costruzione così rapida dell’intera Palazzata fu dovuta alla genialità dell’ arch. Gullì il quale seppe standardizzare alcuni elementi architettonici, come i balconi in pietra di Siracusa, le porte, le finestre, i fregi, le paraste, le soglie, predisponendoli a piè d’opera, durante la realizzazione dei muri portanti.
In un simile arco di tempo occorso per la costruzione si suppone che gli interni non dovevano essere per niente complicati.
Il piano superiore della Loggia dei Mercanti veniva in seguito adibito ad Armeria. I molteplici usi del palazzo fecero si che lo spazio per i mercanti diventasse insufficiente, per cui si costruì, nel 1627, un’altra Loggia al di là della Porta della Loggia.
L’edificio altrettanto bello, sede anche della Corte del Consolato dell’Arte della Seta, per metà era coperto da volte sostenute da grosse colonne di pietra e per l’altra metà era scoperto.
Questa loggia era tutta attorniata da un bellissimo e spazioso sedile di marmo con lunga fila di balaustri di ferro, ed in ognuno degli angoli c’era una bellissima colonna di porfido.
Nel suo insieme doveva assomigliare alla Loggia dei Catalani di Palermo, tranne per il fatto che parte di essa era allo scoperto.
Nel frattempo la città, dopo aver conquistato in un primo tempo la fiducia degli spagnoli, ed acquisito di conseguenza notevoli altri privilegi, nel 1674 si rivoltò contro, ottenendo in un primo tempo l’aiuto dei francesi e poi il loro tradimento. Questo episodio scatenò la vendetta di Madrid, la quale gli tolse pian piano tutti i privilegi che in precedenza gli aveva concesso.
Il Palazzo Senatorio di piazza Duomo veniva abbattuto, e al suo posto fatta erigere una statua di Carlo II.
Fu così che la Loggia dei Mercanti cedeva il suo sito al Senato, trasferendosi unicamente e definitivamente nella loggia anzidetta.
D’altronde il commercio non era più così fervido, come alcuni anni prima, e la piccola sede vicina era più che sufficiente.
Il terremoto tremendo del 1783 diede un ulteriore colpo all’economia cittadina distruggendo la Palazzata e danneggiando gravemente la Loggia dei Mercanti, ormai conosciuta ai più come Palazzo Senatorio.
La Palazzata fu interamente ricostruita ad opera di Giacomo Minutoli nel 1878, e fu nuovamente distrutta, e mai più ricostruita, dal terribile terremoto, che rase al suolo Messina, del 1908.
Michele Palamara

Catalogna o Spagna? I messinesi in passato hanno preferito la Catalogna L'influenza prima catalana e poi spagnola nell'architettura messinese

La Sicilia entrò a far parte della Corona d’Aragona, e quindi sotto influenza catalana, nel 1282, con la guerra del Vespro; diventò poi una sorta di colonia della Spagna unita attorno al 1500; il tutto si concluse nel 1713 quando, con la pace di Utrecht, gli ultimi vicere spagnoli finirono di lasciare l’isola.

Ma la Sicilia e l’attuale Spagna risultavano coinvolte in una comune koinè culturale già dal tempo delle incursioni musulmane (700); pertanto, si può dire che questi rapporti siano durati quasi un millenio.

Ma la Sicilia ha preferito la Catalogna o la Spagna?

Gli angioini non erano mai stati amati dai siciliani, quindi l’avvento del governo aragonese-catalano nell’isola fu certamente il male minore anche se, per buona parte del trecento, ad esso si opposero molte famiglie nobili siciliane (Chiaramonte, Sclafani, Migliaccio), le quali formavano il partito “latino” che sponsorizzava un’architettura indigena (arabo-normanna, sveva) in contrapposizione alle forme provenienti dalla Catalogna.

Con l’inizio del 400, tuttavia, le barriere si aprivano decisamente al gotico catalano, e ovunque in Sicilia architetti e lapicidi si ispiravano a quel gotico orizzontale e fiammeggiante, piuttosto che a quello francese verticale, utilizzandolo per lo più nella costruzione di palazzi o case con patio e scala “descubierta” (palazzo Corvaja a Taormina).

Fra la fine del 400 e l’inizio del 500, invece, i rapporti con l’Italia si aprivano maggiormente. Il rinascimento era italiano e quindi trovava facile approdo in Sicilia, soprattutto a Messina (porta della Sicilia) e Palermo (capitale), per cui le arti provenienti dalla Spagna, ormai unificata (gotico isabellino e plateresco), attecchirono meno.

Anche dal punto di vista politico-sociale, i siciliani, e in particolare i messinesi, a un certo punto, cominciarono a mostrare insofferenza nei confronti degli spagnoli, prova ne è la rivoluzione antispagnola del 1674 che si concluse, come tutti sappiamo, con la soppressione e tutta una serie di punizioni per la nostra città.

Michele Palamara

Un muro per ascoltare gli aerei nei pressi di San Placido Calonerò? Lo sapevano pure i “babbi ill’unpa” Accanto al Monastero di San Placido Calonerò

Accanto al Monastero di San Placido Calonerò, poco prima di arrivare a Pezzolo, c’è una strana
struttura in cemento armato a forma di stella a tre punte che recentemente lo storico Luciano Alberghini Maltoni ha svelato essere “muro di ascolto”, un edificio utilizzato durante la seconda guerra mondiale per ascoltare gli aerei, una sorta di radar.

Lui stesso nel Dodecaneso, in Grecia, ne ha ristrutturato uno identico realizzato anch’esso dall’aeronautica italiana per l’84° Gruppo e la 147° Squadriglia, dal 1923 al 1943 di stanza a Leros con compiti di Ricognizione Marittima Lontana.

Il Dodecaneso fu, infatti, occupato dagli italiani nel 1912 in seguito agli eventi della guerra italo-turca in Libia e diventò “Possedimento italiano delle isole dell’Egeo” in seguito al trattato di Losanna del 1923.

L’isola di Leros, così come tutto il Dodecaneso, rimase italiana fino al 1947 e fu sede di un’importante e strategica base aeronavale.

Grazie alla presenza italiana l’isola fu, peraltro, protagonista di uno sviluppo architettonico razionalista di gran pregio.

Da questa struttura militare, ascoltato l’aereo veniva prontamente data comunicazione agli operatori dell’UNPA (Unione nazionale protezione antiaerea), l’organizzazione di protezione civile istituita il 31 agosto 1934, che verso la fine del conflitto, per lo stato di grave emergenza, era costretta a reclutare persone in età avanzata o in stato fisico non perfetto. Da qui l’appellativo del tutto messinese “babbi ill’unpa”.

Michele Palamara

Il sentiero che collegava San Placido il Nuovo con San Placido il Vecchio Le fasi costruttive di San Placido Calonerò

Le fasi costruttive che hanno riguardato il Monastero di San Placido Calonerò sono sintetizzabili in 4 passaggi fondamentali: 1360 circa assegnazione del feudo ad Andrea Vinciguerra; 1376 donazione del feudo ai Benedettini; 1400 circa completamento della chiesa nell’area del chiostro nord; 1608 completamento dei due chiostri nelle forme rinascimentali attuali.

Ma forse non tutti sanno che i Benedettini prima di trasferirsi sull’altopiano dove oggi sorge il “Cuppari” si trovavano sulla collinetta di fronte, al di là del torrente Briga, nel cosiddetto Monastero di San Placido il Vecchio o “in Silvis, con bella chiesetta annessa.

L’antico edificio era raggiungibile, prima dell’alluvione del 2009, salendo da Briga Superiore; oggi lo è passando da Giampilieri.

Ma da dove passavano i Benedettini nei loro frequenti spostamenti da un Monastero all’altro?

Molti, in maniera probabilmente fantasiosa, hanno parlato addirittura di un passaggio sotterraneo attraverso gli scantinati sotto il chiostro nord, ma è molto più probabile che, passando per il belvedere a sud del Monastero, attraverso un semplice sentiero giù per un lieve pendio, si potesse giungere prima al Lebbrosario Femminile di Briga con chiesetta quattrocentesca annessa, tutt’oggi appartenente ai Benedettini, e poi sù per San Placido il Vecchio.

Michele Palamara

La chiesetta bunker sul colle “Paleo-Kastron” Probabilmente una chiesetta bizantina poi trasformata nei secoli

Visibilissima da lontano, alcuni romettesi la chiamano “la palla” per la forma della sua cupola, si trova sulla cima del colle Palostrago o Palostraco o Palostrico, parola proveniente dal greco “Paleo-Kastron” che significa antico accampamento.

L’edificio ha un aspetto decisamente militare nella sua forma volumetrica, nell’ampiezza delle mura e nelle ampie strombature delle poche finestre.

Il monte su cui sorge è stato nei secoli abitato e militarizzato. Prova ne sono i resti della necropoli greca e della torretta d’avvistamento, visibile tutt’oggi dalla strada provinciale e che dà il nome all’omonima frazione, oggi disabitata. Alla fine dell’800, peraltro, sul luogo c’era un distaccamento militare facente parte del fronte difensivo della dorsale dei Peloritani.

La prima costruzione della chiesa potrebbe farsi risalire al periodo di appartenenza della Sicilia all’impero bizantino. La teoria dell’utilizzo da parte dei bizantini del colle è corroborata anche dalle ricerche dell’archeologo Giacomo Scibona. La pianta ottagonale, simile alla vicina chiesa di Santa Maria dei Cerei e la rozza cupola emisferica poggiante, attraverso semplici pennacchi, su sobria cornice modanata avvalora ulteriormente questa ipotesi. La stessa pianta ottagonale la riscontriamo anche nella chiesa di san Pietro Deca a Torrenova (il “conventazzo”). Le stesse semplici cornici le riscontriamo nella “rosata” di Rodì Milici, così come nella diruta Chiesa della Madonna di Loreto a Pezzolo, nella quale troviamo anche le stesse finestre ad arco ribassato e con forte strombatura, che, da un lato, potrebbero far pensare anche a modifiche militari cinquecentesche.

La cupola, a prima vista più alta rispetto alle altre cupole bizantine, in realtà potrebbe essere frutto dell’abbassamento dei grossi muri perimetrali, forse per far spazio al timpano nell’ammodernamento della chiesa realizzato nel XVIII secolo, quando la tradizione vuole sia stata realizzata la chiesa in ringraziamento alla Madonna per un miracolo. La cupola bizantina cosiddetta “a mammella“, appare solitamente ribassata proprio perché incassata nelle mura perimetrali.

E’ certamente affermabile che l’edificio, in attesa di indagini archeologiche precise, sia frutto quindi di diverse stratificazioni.

Tali modifiche, fra cui la recente imbiancata generale, fanno somigliare la chiesetta a costruzioni militari rinascimentali, ma anche ai ben più recenti “bunker” della seconda guerra mondiale.

Per alcuni, infine, questo tipo di costruzione a pianta centrale sarebbe da far risalire alla costruzione funeraria di epoca araba chiamata “marabutto” o “qubba”.

Michele Palamara


Ricostruzione computerizzata dell’autore

Cuba bizantina della Madonna di Loreto a Pezzolo

Finestra della “cuba” della Madonna di Loreto a Pezzolo

L’aspetto militare della chiesa romettese a confronto con un bunker della seconda guerra mondiale in alto a sinistra e il cinquecentesco Forte San Salvatore a Messina in basso

Chiesa della Madonna del Palostrico a Rometta

Il marabutto di Sidi Gemour

La Casette Avignone nel contesto del Borgo Zaera Dove Padre Annibale di Francia assisteva i poverelli a Messina

Il borgo storico dello Zaera sorgeva in una zona che probabilmente fu sede del primo nucleo urbano di Messina, ancor prima della nascita di Cristo. Una zona, ricordiamo, abbondantemente irrigata dai torrenti: Zaera a sud-ovest; Santa Marta e Santa Cecilia a nord-est, e pertanto particolarmente adatta agli insediamenti. Nonché giacente su quel “Piano delle Moselle o Mosella”, storico perché lì, Roberto il Guiscardo sconfisse gli arabi nel 1061, dando inizio ad un floridissimo periodo per la Sicilia.

Il borgo si andò formando attraverso la costruzione di case a schiera di passo minimo, proprio dove l’antico dromos, proveniente da Taormina, prima di arrivare a Messina, si divideva in “due vie”: una entrava dritta nel cuore della città, l’altra le girava attorno. Esso venne lasciato fuori dalle mura fatte costruire da Carlo V, ed assunse il controllo dell’ingresso sud della città, nonchè un certo benessere economico legato proprio alla percorrenza Messina-Taormina. Ciò lo condusse anche ad un notevole sviluppo urbano, tanto da far contare, alla fine del XVI secolo, più di diecimila abitanti, ridotti di parecchie unità dopo il terremoto del 1783, che in parte lo rase al suolo.

L’abbattimento delle mura cinquecentesche ed in seguito la ricostruzione risorgimentale del 1853 segna la rifusione di questo e degli altri storici borghi messinesi all’interno della città. Un inglobamento già in progetto da parecchio tempo, da quando, nel 1671, il senato messinese aveva dato incarico all’ing. Antonio Maffei di costruire la cosiddetta Porta Zaera. Ma la persistenza di taluni limiti fisici, come le fiumare appunto, impedirono, però, una perfetta fusione tra le diverse realtà urbane.

Le Casette Avignone, nelle quali Padre Annibale Maria di Francia passò la maggior parte della sua vita, si trovavano proprio all’incrocio fra la ex Via del Dromo, attuale Via Porta Imperiale, e il torrente Santa Cecilia, nel piano dei cosiddetti “orti gemelli”. Proprio in quel punto dove secoli prima aveva avuto la sua origine il borgo.

Nel 1840, all’epoca della costruzione delle casette, la via Porta imperiale, che aveva inizio dalla Porta Zaera, si biforcava, quindi, in “due vie”: una, con lo stesso nome, si concludeva giusto con la porta fatta costruire in onore di Carlo V, detta appunto imperiale, più o meno nei pressi dell’attuale tribunale; l’altra prendeva il nome di via Cardines, e si concludeva alle spalle della Palazzata, passando per la Chiesa dei Catalani.

Ormai la via Santa Marta e la via Porta Imperiale, sino al torrente Zaera, erano già fiancheggiate da una lunga serie di case a schiera dallo stretto passo, quando le Casette Avignone andavano ad occupare quell’ultimo fazzoletto di terra ancora disponibile. Committente del progetto era il nobile Maggiore Antonio Avignone, dei Marchesi di S. Teodoro. Il quale le fece costruire per affittarle ai poveri che non avevano altro alloggio in città.

Esse comprendevano un’area approssimativamente di 40 x 40 metri con 4 file di casette a schiera posizionate a pettine perpendicolarmente alla Via del Valore, unico ingresso delle casette, a sua volta perpendicolare alla Via Porta Imperiale.

I vicoli erano pertanto tre, tutti a cul de sac, denominati A, B e C. Il vicolo A, entrando da Via del Valore, il più vicino a Via Porta Imperiale, si concludeva col preesistente Palazzo Alessi, che a sua volta si affacciava su via Aurelio Saffi. In tre di questi blocchi, le casette, secondo uno schizzo dello stesso Padre Annibale del 1878 e secondo i disegni più tardi del prof. Favaloro, si appoggiavano di schiena, mentre l’ultimo blocco era dotato di ingresso solo sul vicolo C.

Proprio quest’ultimo blocco, dopo la demolizione effettuata nel 1916, per dar spazio alla via Ghibellina, come previsto dal Piano Borzì, fu ricostruito dallo stesso Padre Annibale più all’interno, sino ad occupare quasi l’intero vicolo C, e sino a portare a poco meno di due metri la luce fra gli ultimi due blocchi. Tale opera, ma non per un fattore igienico, gli costò una causa civile lunghissima con gli eredi Avignone, poi vinta. In quell’occasione veniva anche realizzata in posizione baricentrica la “mensa del povero”. Il tutto, rispettando i vincoli imposti dal Piano Borzì, cioè i limiti del futuro isolato n. 97.

Tuttavia le stesse Casette Avignone, praticamente delle baracche, la storicità del quartiere Zaera, con le vecchie case ormai fatiscenti, e la presenza di istallazioni militari, avevano fatto si che già il precedente Piano Spadaro del 1869 non avesse avuto buon esito in questa fetta di tessuto urbano. D’altronde lo stesso accadde negli altri borghi storici, a dimostrazione di come le singole parti: borghi, centro e nuove espansioni, stentassero a relazionarsi in un unico organismo. La conseguenza fu che tutta l’area divenne via via sempre più degradata finchè non furono finalmente abbattute le stesse Casette Avignone e le altre baracche che affacciavano sulla Via Porta Imperiale, e finchè quest’ultima non assunse le caratteristiche di arteria principale cittadina.

Ciò si attuò a cominciare dal 1921, quando venne posta la prima pietra del nuovo Santuario, esattamente dove sorgeva la Chiesa Baracca, donata al quartiere da Papa Pio X nel 1910, e distrutta da un misterioso incendio nel 1919. Il Nuovo Santuario, dedicato a San Antonio, fu inaugurato nel 1926, e appena 5 anni dopo iniziarono le demolizioni delle baracche e contemporaneamente i lavori dell’Istituto Antoniano Maschile, alcuni metri indietro rispetto al vecchio limite del lotto, per dare maggiore respiro alla Via Porta Imperiale. Letterio Savoia e Gaetano Bonanno portarono a termine la costruzione nel 1937 nelle forme che noi tutti conosciamo.

 

Michele Palamara