Conferenza all’Università della terza età di S. Teresa Riva
Servizio di Tele 90 sulla conferenza di Michele Palamara dal titolo “Fortificazioni joniche nella provincia di Messina” all’UNITRE di Santa Teresa di Riva
architetto e giornalista
Servizio di Tele 90 sulla conferenza di Michele Palamara dal titolo “Fortificazioni joniche nella provincia di Messina” all’UNITRE di Santa Teresa di Riva
Randazzo, residenza estiva di Federico III d’Aragona e per un certo tempo anche centro del governo della Sicilia, fin dall’inizio del XIV secolo fu abitata dai nobili spagnoli, e pertanto fu ricchissima di palazzi, alcuni dei quali, adornati di pietra lavica, sono ancora la maggiore attrattiva dei visitatori più attenti.
Il quattrocentesco Palazzo Clarentanto Finocchiaro, ad esempio, col suo “alero” (tetto aggettante) e le sue bifore con fine colonnina, ricorda decisamente i palazzi della Catalogna e dell’alta Aragona.
Dei tanti elementi architettonici gotico catalani si è scritto, ma del tutto straordinaria è, invece, la Loggia Sacrestia, adiacente alla chiesa di Santa Maria, di impianto svevo.
Lo stile è tardo rinascimentale, ma non di importazione italiana, come avveniva soprattutto a Palermo e nelle grandi città siciliane, bensì spagnola.
L’edificio, risalente al 500, anni in cui venivano apportate delle modifiche alla chiesa, fu, forse, restaurato nel 600 dal messinese Agostino Scilla. Al piano terra la loggia, forse un tempo di vendita o di contrattazione, al piano superiore il tribunale ecclesiastico, divenuto poi sacrestia della chiesa.
La disposizione dei conci a faccia vista, l’aspetto turrito, le semplici bucature rettangolari protette da inferriate e con timpano sovrastante, gli acroteri terminali a forma di “bolas“, gli archi ribassati ci parlano decisamente spagnolo e precisamente di stile “herreriano“.
L’architettura “herreriana” si caratterizza per il proprio rigore geometrico, per la relazione matematica fra i distinti elementi architettonici, per i volumi limpidi, per il predominio del pieno sul vuoto e per l’assenza quasi totale di decorazione.
A volte è anche detto stile “escorialense“, alludendo all’Escorial di Madrid che serve come paradigma a questa corrente architettonica, opera di Juan de Herrera.
Sia la Sacrestia di Randazzo che i Municipi di Gijon, Castalla e Arnes, ma anche la casa de los Almaraz a Plasencia, distaccano per la loro severità, ottenuta grazie all’equilibrio delle forme che si dispongono simmetricamente nella struttura, e sono sormontate da acroteri a forma di “bolas“, dette anche “bolas escorialenses“, o altri elementi di verticalità e magnificenza che, allo stesso tempo contribuiscono a rafforzare la sensazione di simmetria.
Lo stile, conosciuto anche come manierismo classicista, si sviluppò in Spagna, e quindi anche in Sicilia, dalla fine del 500 a tutto il 600, anni in cui viene costruita la Sacrestia.
Michele Palamara
A sinistra Municipio di Arnes a destra Loggia Sacrestia di Randazzo
Municipio Gijon
Casa Los Almaraz a Plasencia
Municipio di Arnes
Oggetto del presente progetto è la realizzazione di una “Bicipolitana” all’interno del comune di Foggia che risponda a obiettivi di mobilità sostenibile da una parte e disinquinamento dall’altra.
Il progetto parte da un’attenta analisi del PUMS (Piano Urbano della Mobilità Sostenibile) della città con l’obiettivo specifico di :
· estendere la rete di percorsi ciclabili e ciclopedonali che innervano la città per garantire una connessione reciproca tra i diversi quartieri e verso i principali poli attrattori presenti in campo urbano;
· incentivare l’uso della bicicletta attraverso idonee azioni di safety e security;
· promuovere l’utilizzo della bicicletta come mezzo complementare all’auto privata.
Le strategie adottate per cogliere gli obiettivi specifici sono sintetizzate nei punti seguenti:
· creare una rete ciclopedonale fondata sulla manutenzione straordinaria dei percorsi esistenti, limitatamente a quelli ritenuti essenziali ai fini della complessiva configurazione di rete, e sulla realizzazione dei tratti mancanti;
· individuare provvedimenti finalizzati a garantire la sicurezza della circolazione di pedoni e ciclisti con particolare riferimento ai punti di maggiore conflitto con il traffico veicolare motorizzato ( safety);
· individuare una rete di velostazioni in corrispondenza dei principali poli attrattori di traffico in modo da garantire adeguate condizioni di security alla custodia del mezzo;
· realizzare un servizio di bike sharing che, in sinergia con la rete di velostazioni di cui al punto precedente, permetta di configurare la bicicletta a pedalata assistita come mezzo per muoversi.
Le nuove piste ciclabili terranno conto dell’unificazione del Parco con i Campi Diomedei e la conseguente chiusura al traffico motorizzato del tratto di via Galliani compreso tra viale Fortore e via Romolo Caggese che resterà percorribile dai pedoni e dai ciclisti, e della linea Metrobus a propulsione elettrica.
Sulla scorta dell’individuazione dei ”punti neri” dell’incidentalità stradale sono previste le seguenti tipologie di intervento finalizzate ad adeguate condizioni di sicurezza a pedoni e ciclisti:
· introduzione di semafori a chiamata in corrispondenza degli attraversamenti ciclopedonali da realizzare su sezioni correnti della viabilità di scorrimento, ad esempio l’attraversamento in corrispondenza degli ingressi alla fiera e al nuovo polo degli uffici comunali su viale Fortore;
· introduzione di fasi semaforiche, a chiamata o predefinite, in corrispondenza delle intersezioni dell’itinerario perimetrale all’area centrale di Foggia;
· realizzazione di attraversamenti ciclopedonali protetti in corrispondenza delle rotatorie esistenti e di progetto alcuni dei quali realizzati con tecnologie a recupero e trasformazione di energia cinetica in energia elettrica.
In tutti i casi si prevede la progressiva introduzione di illuminazione notturna dell’area di attraversamento attivata da dispositivi che rilevano la presenza del pedone o del ciclista in contesti non edificati, che potranno essere alimentati mediante recupero di energia.
La storica condizione di segregazione che sconta il Rione Martucci, rispetto all’area centrale della città, particolarmente evidente dal punto di vista della mobilità pedonale, verrà mitigata dalla realizzazione di una passerella ciclopedonale di scavalco del fascio dei binari, sulla via Fortore. Su entrambi gli “attacchi a terra” il progetto prevede la creazione di due nuove piazze.
I nuovi percorsi, che si andranno ad unire a quelli esistenti e riqualificati, pensati dopo un’attenta analisi delle scuole, dei monumenti e dei luoghi di lavoro presenti nell’area oggetto di intervento, saranno 3:
· percorso “storico” che ruota attorno all’antico nucleo della città in cui si concentrano la maggior parte delle emergenze architettoniche;
· percorso “boulevard” che gira attorno alla città come una circonvallazione passando per la maggior parte delle scuole e la maggior parte delle strutture pubbliche (sedi di enti, ospedali, Università, teatri e cinema);
· percorsi “da periferia a periferia” che si intersecano quasi perpendicolarmente come un cardo e un decumano, collegandosi poi ai tratti di progetto F4, F5 ed F6 della “rete ciclistica provinciale”.
Il Programma “da periferia a periferia” è una proposta progettuale del PUMS, sviluppata in risposta al D.P.C.M. 25/05/2016 “Bando per la presentazione di progetti per la predisposizione del Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle città metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia”.
Tutti i percorsi sviluppati nel presente progetto sono stati pensati in risposta al D.M. 208 del 28/07/2016. “Programma sperimentale nazionale di mobilità sostenibile casa-scuola e casa-lavoro”, promosso dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che ha come obiettivo principale l’effettiva riduzione delle emissioni inquinanti e l’abbandono graduale del ricorso eccessivo all’automobile, secondo quanto richiesto dalla direttiva UE e riportato nei dettami del “Programma sperimentale nazionale di mobilità sostenibile”.
Il progetto prevede inoltre la realizzazione di 13 rastrelliere per il bike sharing, composte da 8 stalli ciascuno, per una flotta di 104 bici, di cui 24 a pedalata assistita, dotati di sistemi di lettura delle tessere elettroniche e servomeccanismi per il serraggio del veicolo e 5 velostazioni, di cui 3 con ricarica elettrica, composte da 30 posti bici in media (per un numero tot. di 150 stalli). Nello specifico localizzate all’arrivo in città dei “circuiti provinciali” F4, F5 ed F6, una più grande alla stazione centrale, e un’altra a Piazza Cavour. All’interno di ogni singola velostazione di distribuzione delle bici verrà installato un pannello informativo, dotato di sistema di videosorveglianza e di hotspot WiFi pubblico (in rete con il sistema del comune) che mostrerà la mappa delle stazioni bikesharing, le regole di utilizzo del sistema, le informazioni utili e i numeri di telefono di riferimento. Ad integrazione del sistema di base verrà messa a disposizione degli utenti l’App Bicincittà’, che mostra in tempo reale la disponibilità delle biciclette e degli stalli vuoti. Viene inoltre prevista la creazione di due ciclofficine, per le operazioni di manutenzione e riparazione delle bici, una in prossimità del cicloposteggio adiacente al Terminal intermodale di Foggia Stazione e l’altra presso l’incrocio viale Ofanto – Viale Europa.
Oltre al sistema di paletti a led con dispositivo di rilevazione della presenza del ciclista previsto lungo il percorso , saranno installate panchine smart con wifi libera e ricarica smartphone, totem informativi con lettore qr-code per conoscere le tipologie dei percorsi e la loro durata, sia lungo il percorso che in corrispondenza delle rastrelliere, nonché cestini per la raccolta differenziata.
E’ previsto, inoltre, l’adeguamento funzionale dei percorsi ciclabili esistenti, per una lunghezza pari 1909 m, che consisterà nella sostituzione degli elementi danneggiati dei percorsi (“tappetino”, segnaletica verticale) e nella ri-pitturazione della segnaletica orizzontale.
Infine sono previste attività specifiche su studenti e lavoratori, tese alla promozione del Bike to School e del Bike to Work e quindi all’utilizzo del “percorso boulevard”.
Obiettivo del progetto “RETE DEI BORGHI” è il recupero e la promozione turistica del vasto patrimonio di villaggi messinesi.
Recupero da attuare, per cominciare, con piccoli interventi-pilota di riqualificazione urbana come, ad esempio, l’inserimento di una o più panchine “smart” dotate di lettore qr-code e info-point per fornire semplici e immediate informazioni turistiche, nonchè ricarica smartphone e wifi libera, insieme al rifacimento di porzioni di pavimentazione.
Promozione turistica che avviene attraverso sito web, brochure informative presso il terminal crocieristico o software installati sullo smartphone.
I turisti, ancor prima di intraprendere il viaggio, sapranno l’esatta ubicazione dei villaggi, i tempi e le modalità di percorrenza e le emergenze architettonico-paesaggistiche.
Sia che decidano di fare un tour “fai da te” che di farlo con autobus messi a disposizione dal Comune, i turisti potranno prendere in affitto occhialini per tour virtuali che sfruttano a pieno le potenzialità della realtà aumentata e delle tecnologie indossabili.
Il progetto si completa con la costituzione di piccole strutture ricettive, composte da 2 o 3 camere per borgo, collegate in rete.
L’aggiornamento delle informazioni e il coordinamento della rete sarà a cura di un Assessorato “Sviluppo e rinnovamento dei Villaggi Comunali”, appositamente costituito dal Comune.
La riqualificazione urbana può costare circa 50.000 €/borgo, l’istituzione di piccole strutture ricettive circa 50.000 €/borgo, l’applicativo e la promozione circa 100.000 €; per un totale di circa 4.100.000 €, equivalenti a circa 40 borghi per adesso. Fondi facilmente reperibili con bandi europei
Alcañiz
Messina
Perpignan
Barcelona
Intervista a Michele Palamara, coordinatore del Congresso “L’influenza spagnola nell’architettura e nell’urbanistica siciliana”.
Intervista a Michele Palamara dai microfoni di Marco Polo Tv
La Sicilia entrò a far parte della Corona d’Aragona, e quindi sotto influenza catalana, nel 1282, con la guerra del Vespro; diventò poi una sorta di colonia della Spagna unita attorno al 1500; il tutto si concluse nel 1713 quando, con la pace di Utrecht, gli ultimi vicere spagnoli finirono di lasciare l’isola.
Ma la Sicilia e l’attuale Spagna risultavano coinvolte in una comune koinè culturale già dal tempo delle incursioni musulmane (700); pertanto, si può dire che questi rapporti siano durati quasi un millenio.
Ma la Sicilia ha preferito la Catalogna o la Spagna?
Gli angioini non erano mai stati amati dai siciliani, quindi l’avvento del governo aragonese-catalano nell’isola fu certamente il male minore anche se, per buona parte del trecento, ad esso si opposero molte famiglie nobili siciliane (Chiaramonte, Sclafani, Migliaccio), le quali formavano il partito “latino” che sponsorizzava un’architettura indigena (arabo-normanna, sveva) in contrapposizione alle forme provenienti dalla Catalogna.
Con l’inizio del 400, tuttavia, le barriere si aprivano decisamente al gotico catalano, e ovunque in Sicilia architetti e lapicidi si ispiravano a quel gotico orizzontale e fiammeggiante, piuttosto che a quello francese verticale, utilizzandolo per lo più nella costruzione di palazzi o case con patio e scala “descubierta” (palazzo Corvaja a Taormina).
Fra la fine del 400 e l’inizio del 500, invece, i rapporti con l’Italia si aprivano maggiormente. Il rinascimento era italiano e quindi trovava facile approdo in Sicilia, soprattutto a Messina (porta della Sicilia) e Palermo (capitale), per cui le arti provenienti dalla Spagna, ormai unificata (gotico isabellino e plateresco), attecchirono meno.
Anche dal punto di vista politico-sociale, i siciliani, e in particolare i messinesi, a un certo punto, cominciarono a mostrare insofferenza nei confronti degli spagnoli, prova ne è la rivoluzione antispagnola del 1674 che si concluse, come tutti sappiamo, con la soppressione e tutta una serie di punizioni per la nostra città.
Michele Palamara
Accanto al Monastero di San Placido Calonerò, poco prima di arrivare a Pezzolo, c’è una strana
struttura in cemento armato a forma di stella a tre punte che recentemente lo storico Luciano Alberghini Maltoni ha svelato essere “muro di ascolto”, un edificio utilizzato durante la seconda guerra mondiale per ascoltare gli aerei, una sorta di radar.
Lui stesso nel Dodecaneso, in Grecia, ne ha ristrutturato uno identico realizzato anch’esso dall’aeronautica italiana per l’84° Gruppo e la 147° Squadriglia, dal 1923 al 1943 di stanza a Leros con compiti di Ricognizione Marittima Lontana.
Il Dodecaneso fu, infatti, occupato dagli italiani nel 1912 in seguito agli eventi della guerra italo-turca in Libia e diventò “Possedimento italiano delle isole dell’Egeo” in seguito al trattato di Losanna del 1923.
L’isola di Leros, così come tutto il Dodecaneso, rimase italiana fino al 1947 e fu sede di un’importante e strategica base aeronavale.
Grazie alla presenza italiana l’isola fu, peraltro, protagonista di uno sviluppo architettonico razionalista di gran pregio.
Da questa struttura militare, ascoltato l’aereo veniva prontamente data comunicazione agli operatori dell’UNPA (Unione nazionale protezione antiaerea), l’organizzazione di protezione civile istituita il 31 agosto 1934, che verso la fine del conflitto, per lo stato di grave emergenza, era costretta a reclutare persone in età avanzata o in stato fisico non perfetto. Da qui l’appellativo del tutto messinese “babbi ill’unpa”.
Michele Palamara
Le fasi costruttive che hanno riguardato il Monastero di San Placido Calonerò sono sintetizzabili in 4 passaggi fondamentali: 1360 circa assegnazione del feudo ad Andrea Vinciguerra; 1376 donazione del feudo ai Benedettini; 1400 circa completamento della chiesa nell’area del chiostro nord; 1608 completamento dei due chiostri nelle forme rinascimentali attuali.
Ma forse non tutti sanno che i Benedettini prima di trasferirsi sull’altopiano dove oggi sorge il “Cuppari” si trovavano sulla collinetta di fronte, al di là del torrente Briga, nel cosiddetto Monastero di San Placido il Vecchio o “in Silvis, con bella chiesetta annessa.
L’antico edificio era raggiungibile, prima dell’alluvione del 2009, salendo da Briga Superiore; oggi lo è passando da Giampilieri.
Ma da dove passavano i Benedettini nei loro frequenti spostamenti da un Monastero all’altro?
Molti, in maniera probabilmente fantasiosa, hanno parlato addirittura di un passaggio sotterraneo attraverso gli scantinati sotto il chiostro nord, ma è molto più probabile che, passando per il belvedere a sud del Monastero, attraverso un semplice sentiero giù per un lieve pendio, si potesse giungere prima al Lebbrosario Femminile di Briga con chiesetta quattrocentesca annessa, tutt’oggi appartenente ai Benedettini, e poi sù per San Placido il Vecchio.
Michele Palamara
Visibilissima da lontano, alcuni romettesi la chiamano “la palla” per la forma della sua cupola, si trova sulla cima del colle Palostrago o Palostraco o Palostrico, parola proveniente dal greco “Paleo-Kastron” che significa antico accampamento.
L’edificio ha un aspetto decisamente militare nella sua forma volumetrica, nell’ampiezza delle mura e nelle ampie strombature delle poche finestre.
Il monte su cui sorge è stato nei secoli abitato e militarizzato. Prova ne sono i resti della necropoli greca e della torretta d’avvistamento, visibile tutt’oggi dalla strada provinciale e che dà il nome all’omonima frazione, oggi disabitata. Alla fine dell’800, peraltro, sul luogo c’era un distaccamento militare facente parte del fronte difensivo della dorsale dei Peloritani.
La prima costruzione della chiesa potrebbe farsi risalire al periodo di appartenenza della Sicilia all’impero bizantino. La teoria dell’utilizzo da parte dei bizantini del colle è corroborata anche dalle ricerche dell’archeologo Giacomo Scibona. La pianta ottagonale, simile alla vicina chiesa di Santa Maria dei Cerei e la rozza cupola emisferica poggiante, attraverso semplici pennacchi, su sobria cornice modanata avvalora ulteriormente questa ipotesi. La stessa pianta ottagonale la riscontriamo anche nella chiesa di san Pietro Deca a Torrenova (il “conventazzo”). Le stesse semplici cornici le riscontriamo nella “rosata” di Rodì Milici, così come nella diruta Chiesa della Madonna di Loreto a Pezzolo, nella quale troviamo anche le stesse finestre ad arco ribassato e con forte strombatura, che, da un lato, potrebbero far pensare anche a modifiche militari cinquecentesche.
La cupola, a prima vista più alta rispetto alle altre cupole bizantine, in realtà potrebbe essere frutto dell’abbassamento dei grossi muri perimetrali, forse per far spazio al timpano nell’ammodernamento della chiesa realizzato nel XVIII secolo, quando la tradizione vuole sia stata realizzata la chiesa in ringraziamento alla Madonna per un miracolo. La cupola bizantina cosiddetta “a mammella“, appare solitamente ribassata proprio perché incassata nelle mura perimetrali.
E’ certamente affermabile che l’edificio, in attesa di indagini archeologiche precise, sia frutto quindi di diverse stratificazioni.
Tali modifiche, fra cui la recente imbiancata generale, fanno somigliare la chiesetta a costruzioni militari rinascimentali, ma anche ai ben più recenti “bunker” della seconda guerra mondiale.
Per alcuni, infine, questo tipo di costruzione a pianta centrale sarebbe da far risalire alla costruzione funeraria di epoca araba chiamata “marabutto” o “qubba”.
Michele Palamara
Ricostruzione computerizzata dell’autore
Cuba bizantina della Madonna di Loreto a Pezzolo
Finestra della “cuba” della Madonna di Loreto a Pezzolo
L’aspetto militare della chiesa romettese a confronto con un bunker della seconda guerra mondiale in alto a sinistra e il cinquecentesco Forte San Salvatore a Messina in basso
Chiesa della Madonna del Palostrico a Rometta
Il marabutto di Sidi Gemour
Il borgo storico dello Zaera sorgeva in una zona che probabilmente fu sede del primo nucleo urbano di Messina, ancor prima della nascita di Cristo. Una zona, ricordiamo, abbondantemente irrigata dai torrenti: Zaera a sud-ovest; Santa Marta e Santa Cecilia a nord-est, e pertanto particolarmente adatta agli insediamenti. Nonché giacente su quel “Piano delle Moselle o Mosella”, storico perché lì, Roberto il Guiscardo sconfisse gli arabi nel 1061, dando inizio ad un floridissimo periodo per la Sicilia.
Il borgo si andò formando attraverso la costruzione di case a schiera di passo minimo, proprio dove l’antico dromos, proveniente da Taormina, prima di arrivare a Messina, si divideva in “due vie”: una entrava dritta nel cuore della città, l’altra le girava attorno. Esso venne lasciato fuori dalle mura fatte costruire da Carlo V, ed assunse il controllo dell’ingresso sud della città, nonchè un certo benessere economico legato proprio alla percorrenza Messina-Taormina. Ciò lo condusse anche ad un notevole sviluppo urbano, tanto da far contare, alla fine del XVI secolo, più di diecimila abitanti, ridotti di parecchie unità dopo il terremoto del 1783, che in parte lo rase al suolo.
L’abbattimento delle mura cinquecentesche ed in seguito la ricostruzione risorgimentale del 1853 segna la rifusione di questo e degli altri storici borghi messinesi all’interno della città. Un inglobamento già in progetto da parecchio tempo, da quando, nel 1671, il senato messinese aveva dato incarico all’ing. Antonio Maffei di costruire la cosiddetta Porta Zaera. Ma la persistenza di taluni limiti fisici, come le fiumare appunto, impedirono, però, una perfetta fusione tra le diverse realtà urbane.
Le Casette Avignone, nelle quali Padre Annibale Maria di Francia passò la maggior parte della sua vita, si trovavano proprio all’incrocio fra la ex Via del Dromo, attuale Via Porta Imperiale, e il torrente Santa Cecilia, nel piano dei cosiddetti “orti gemelli”. Proprio in quel punto dove secoli prima aveva avuto la sua origine il borgo.
Nel 1840, all’epoca della costruzione delle casette, la via Porta imperiale, che aveva inizio dalla Porta Zaera, si biforcava, quindi, in “due vie”: una, con lo stesso nome, si concludeva giusto con la porta fatta costruire in onore di Carlo V, detta appunto imperiale, più o meno nei pressi dell’attuale tribunale; l’altra prendeva il nome di via Cardines, e si concludeva alle spalle della Palazzata, passando per la Chiesa dei Catalani.
Ormai la via Santa Marta e la via Porta Imperiale, sino al torrente Zaera, erano già fiancheggiate da una lunga serie di case a schiera dallo stretto passo, quando le Casette Avignone andavano ad occupare quell’ultimo fazzoletto di terra ancora disponibile. Committente del progetto era il nobile Maggiore Antonio Avignone, dei Marchesi di S. Teodoro. Il quale le fece costruire per affittarle ai poveri che non avevano altro alloggio in città.
Esse comprendevano un’area approssimativamente di 40 x 40 metri con 4 file di casette a schiera posizionate a pettine perpendicolarmente alla Via del Valore, unico ingresso delle casette, a sua volta perpendicolare alla Via Porta Imperiale.
I vicoli erano pertanto tre, tutti a cul de sac, denominati A, B e C. Il vicolo A, entrando da Via del Valore, il più vicino a Via Porta Imperiale, si concludeva col preesistente Palazzo Alessi, che a sua volta si affacciava su via Aurelio Saffi. In tre di questi blocchi, le casette, secondo uno schizzo dello stesso Padre Annibale del 1878 e secondo i disegni più tardi del prof. Favaloro, si appoggiavano di schiena, mentre l’ultimo blocco era dotato di ingresso solo sul vicolo C.
Proprio quest’ultimo blocco, dopo la demolizione effettuata nel 1916, per dar spazio alla via Ghibellina, come previsto dal Piano Borzì, fu ricostruito dallo stesso Padre Annibale più all’interno, sino ad occupare quasi l’intero vicolo C, e sino a portare a poco meno di due metri la luce fra gli ultimi due blocchi. Tale opera, ma non per un fattore igienico, gli costò una causa civile lunghissima con gli eredi Avignone, poi vinta. In quell’occasione veniva anche realizzata in posizione baricentrica la “mensa del povero”. Il tutto, rispettando i vincoli imposti dal Piano Borzì, cioè i limiti del futuro isolato n. 97.
Tuttavia le stesse Casette Avignone, praticamente delle baracche, la storicità del quartiere Zaera, con le vecchie case ormai fatiscenti, e la presenza di istallazioni militari, avevano fatto si che già il precedente Piano Spadaro del 1869 non avesse avuto buon esito in questa fetta di tessuto urbano. D’altronde lo stesso accadde negli altri borghi storici, a dimostrazione di come le singole parti: borghi, centro e nuove espansioni, stentassero a relazionarsi in un unico organismo. La conseguenza fu che tutta l’area divenne via via sempre più degradata finchè non furono finalmente abbattute le stesse Casette Avignone e le altre baracche che affacciavano sulla Via Porta Imperiale, e finchè quest’ultima non assunse le caratteristiche di arteria principale cittadina.
Ciò si attuò a cominciare dal 1921, quando venne posta la prima pietra del nuovo Santuario, esattamente dove sorgeva la Chiesa Baracca, donata al quartiere da Papa Pio X nel 1910, e distrutta da un misterioso incendio nel 1919. Il Nuovo Santuario, dedicato a San Antonio, fu inaugurato nel 1926, e appena 5 anni dopo iniziarono le demolizioni delle baracche e contemporaneamente i lavori dell’Istituto Antoniano Maschile, alcuni metri indietro rispetto al vecchio limite del lotto, per dare maggiore respiro alla Via Porta Imperiale. Letterio Savoia e Gaetano Bonanno portarono a termine la costruzione nel 1937 nelle forme che noi tutti conosciamo.
Michele Palamara
L’antica via del Dromo che proveniva da sud, assumeva, nell’ultimo tratto prima di entrare in città e biforcarsi, la denominazione di Strada delle Camerelle. Era, per intenderci, quel tratto di via Porta Imperiale che và da Piazza del Popolo a Via Tommaso Cannizzaro.
E’ proprio in questa strada che ha inizio la storia del Convento dello Spirito Santo e della Chiesa annessa, al quale è fortemente legata anche la storia di Suor Nazarena Majone.
Nel 1291, ancora abbondantemente fuori dalle fortificazioni fatte erigere dai normanni, in una zona particolarmente fertile fra i torrenti Santa Marta da un lato e Portalegni dall’altro, la sig.ra Francesca Boccapicciola, come afferma il rev. Padre Placido Samperi, fa erigere, in un terreno di sua proprietà, il monastero e la chiesa annessa dello Spirito Santo.
Alla sua costruzione partecipò economicamente anche Federico III d’Aragona, come fece per molti altri edifici religiosi in città. E, poiché ancor prima in quei luoghi vi era una fattoria dell’Abbazia di Roccamatore, Suor Francesca, prima Badessa del Convento dello Spirito Santo, volle che il monastero agisse sotto le regole dell’Ordine Cistercense e dipendesse proprio dall’Abbazia di Tremestieri. Le volte a crociera senza costoloni, i grossi pilastri rettangolari e gli altrettanto grossi archi a tutto sesto, forse un chiostro ma forse no, affiorati nel 1998 durante i lavori di rifacimento di alcune tubazioni, fanno parte di quell’ala più antica del monastero e sono un segno preciso di quell’architettura cistercense introdotta in età normanna dai francesi e di cui l’Abbazia di Roccamatore ne era il primo esempio in Sicilia.
Come avvenne per altre zone esterne alla città medievale, l’area su cui sorse il monastero pian piano si andò sviluppando, sino a formare un borgo e sino ad inglobare lo stesso monastero. Ecco che sorse il Borgo dello Spirito Santo, uno dei tanti borghi extraurbani che soltanto nel 1852 verrà incluso nel muro daziario della città.
Non si sa molto della Chiesa e del Monastero dello Spirito Santo sino agli ultimi anni del XIX secolo. La chiesa, intorno alla seconda metà del 600, cominciò ad assumere i connotati del barocco importato da Roma ma carico di stucchi e marmi policromi alla maniera siciliana. Il monastero, invece, perse la sua funzione di luogo di culto e assunse, pertanto, un aspetto sempre più degradato.
Eravamo proprio sullo scorcio del XIX secolo quando veniva dato ordine a Padre Annibale Maria di Francia di abbandonare il Palazzo Brunaccini, in via Cavour, lì vicino. Palazzo che il canonico messinese usava come ricovero delle orfanelle.
Per Padre Annibale si prospettavano nuovi problemi da risolvere, ma dopo tante insistenti richieste al Municipio, lo stesso otteneva finalmente l’uso del vicino monastero dello Spirito Santo e dava ordine a Suor Nazarena Majone di trasferirsi urgentemente con 12 orfanelle. La Suora ubbidiva, ma, dato lo stato di totale abbandono del monastero, si trovò costretta a raccogliere una squadra di operai e a dare urgentemente avvio ai lavori di ristrutturazione che in seguito avrebbero portato, fra alterne vicende, il vecchio Monastero a nuova linfa, trasformandolo oggi in uno dei più importanti luoghi di culto messinesi.
Maria Majone diventerà nel 1896 la Prima Superiora Generale della Congregazione del Divino Zelo.
Il terremoto del 1908 è un’altra dura prova per la grande forza di volontà di Padre Annibale e Suor Nazarena. Saranno necessari nove lunghi anni dal grande disastro affinchè i due riescano ad ottenere definitivamente l’area e ad avviare i restauri affidandone i lavori all’ing. Antonino Marino, poi passati a Pasquale Marino alla morte del canonico.
L’ing. Pasquale Marino ha lasciato una bella pubblicazione dove espone le problematiche progettuali e ce ne illustra le soluzioni. Nella sua relazione egli suppone che la disposizione planimetrica della chiesa barocca, danneggiata dal sisma del 1908, non si discostasse di molto da quella duecentesca, e le piante della città precedenti al 700 gli danno ragione. Successive dovevano, invece, essere le due cripte in cui venivano posizionate sedute le salme delle suore.
Il 29 giugno del 1938 l’arcivescovo Paino riapriva ufficialmente la Chiesa dello Spirito Santo, restaurata con l’ausilio della carità messinese. Il terremoto del 1908 aveva fatto cadere l’intera cupola e lasciato in piedi solo parte dei muri perimetrali, ma la sapiente opera di restauro dell’ing. Marino, coadiuvata da bravi stuccatori come Giuseppe Fiorino, hanno fatto sì che le linee barocche tardo secentesche originali e gli ambienti vissuti da Padre Annibale e Suor Nazarena venissero mantenuti.
Michele Palamara